Approvato dalla Conferenza Internazionale di ricostituzione della Opposizione Trotskista Internazionale (Rimini, 29 ottobre — 1° novembre 2022)
1. La rivoluzione socialista mondiale
Il fine dell’azione rivoluzionaria del trotskismo è la distruzione della società capitalistica e lo sviluppo della società socialista.
Solo con la distruzione del capitalismo su scala mondiale sarà possibile realizzare un poderoso sviluppo delle forze produttive, inteso come massima efficienza ambientalmente compatibile, e liberare l’umanità dallo sfruttamento, dalla miseria, dall’oppressione sessuale e razziale, dall’ineguaglianza, dal deterioramento e dalla distruzione delle risorse naturali e dell’ambiente, dalle guerre e dalla violenza, prodotti della società divisa in classi.
La catastrofe ambientale obiettivamente in corso, coi suoi ricorrenti risvolti pandemici, attualizza una volta di più la prospettiva della rivoluzione socialista internazionale quale condizione decisiva per la difesa della specie umana e della natura intera, attraverso la riorganizzazione socialista della società e un’economia democraticamente pianificata.
L’abolizione del capitalismo con la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio e il processo di costruzione del socialismo presuppongono la distruzione dello Stato borghese.
Tale distruzione è possibile solo tramite l’insurrezione armata realizzata dal proletariato, unica classe conseguentemente rivoluzionaria della società capitalistica, che trascini dietro di sé le masse della piccola borghesia urbana e rurale oppresse dal capitalismo.
Solo con tale insurrezione sarà possibile al proletariato impadronirsi del potere politico e sconfiggere l’inevitabile resistenza violenta della classe dominante e delle forze sociali ad essa legate, e la trasformazione della società in senso socialista.
I trotskisti rigettano come illusoria la pretesa di arrivare al socialismo per via pacifica e graduale, come risultato di un progressivo sviluppo della democrazia conseguente per azione del proletariato all’interno dello Stato borghese. Nella stragrande maggioranza dei casi tali posizioni mascherano la volontà di non mettere in causa i rapporti di produzione e di proprietà capitalistici; ma anche dove esse sono espressione di reale volontà anticapitalistica, sono utopiche e di fronte alla violenza dello Stato borghese, che la storia anche recente ha sempre dimostrato manifestarsi nelle forme più brutali ove la borghesia senta messo in causa il suo dominio sociale, non possono che portare alla disfatta del proletariato.
Nello stesso tempo il trotskismo conseguente rifiuta ogni strategia rivoluzionaria centrata sulla guerra di guerriglia di tipo sia contadino che urbano.
Infatti, tale strategia porta alla sostituzione del proletariato come forza motrice della rivoluzione con altre classi sociali (contadini, piccola borghesia urbana, gioventù declassata) e con ciò dimostra il suo carattere non socialista.
Allo stesso modo il trotskismo rigetta l’azione dei gruppi terroristico-guerriglieri che pretendono di parlare in nome del proletariato ma che, anche quando composti in maggioranza da proletari, in realtà rappresentano settori staccati dalla classe operaia e il cui avventurismo è un elemento di disgregazione nelle file proletarie.
Il trotskismo ribadisce la concezione marxista e leninista secondo cui l’insurrezione proletaria vittoriosa può realizzarsi solo se gode dell’appoggio attivo della maggioranza politica del proletariato e nel quadro di una situazione di crisi rivoluzionaria.
2. La dittatura del proletariato
In luogo dell’apparato statale borghese distrutto, il proletariato edificherà il proprio Stato (dittatura del proletariato). Esso si baserà sugli organi della democrazia sovietica: i consigli dei lavoratori nelle fabbriche, nei campi, nei quartieri popolari, centralizzati ai livelli superiori dello Stato operaio.
Uno dei compiti centrali dello Stato proletario sarà la lotta contro il pericolo della burocratizzazione. La dittatura del proletariato prevederà l’eleggibilità e revocabilità dei funzionari dello Stato, che in ogni caso non dovranno godere di privilegi particolari per le loro funzioni.
I trotskisti devono promuovere la più compiuta democrazia nello Stato operaio. Le modalità concrete di attuazione della democrazia proletaria saranno determinate dalla situazione concreta dello Stato operaio. Come argomentava Trotsky: «È una dittatura, e al contempo la sola vera democrazia proletaria. La sua ampiezza e la sua profondità dipendono dalle condizioni storiche concrete. Più Stati prenderanno la via della rivoluzione socialista, più libere e duttili saranno le forme della dittatura, più ampia e profonda sarà la democrazia operaia». Nostro obiettivo è appunto quest’ampia e profonda democrazia operaia (a tal punto che il proletariato potrà estendere laddove possibile i diritti democratici anche ai nemici della rivoluzione, e lottare contro di essi con mezzi politici). Ma ricusiamo di legarci in anticipo a schemi garantistici, che non possono prendere in considerazione lo sviluppo concreto del processo rivoluzionario, e in particolare il contesto internazionale.
La dittatura del proletariato costituisce una fase di transizione che, col progressivo sviluppo equilibrato fra forze produttive, ambiente naturale e specie umana, porterà al socialismo, all’estinzione delle classi sociali e al comunismo.
Tale processo sarà raggiungibile solo attraverso l’estensione internazionale della rivoluzione proletaria e la creazione di una Repubblica mondiale dei consigli dei lavoratori.
Con il raggiungimento del comunismo le funzioni coercitive della dittatura proletaria verranno a cadere portando così all’estinzione dello Stato.
3. La rivoluzione permanente
Il trotskismo conseguente basa la sua strategia sulla concezione della rivoluzione permanente (più correttamente nelle lingue latine “in permanenza”, cioè “senza soluzione di continuità”).
Tale teoria, nata nel movimento comunista tedesco a metà dell’’800 fu magistralmente esposta da Marx ed Engels nel loro Indirizzo [“Circolare”] del Comitato centrale alla Lega [dei Comunisti] del 1850 e dopo ripresa dal marxismo rivoluzionario, in particolare da Trotsky in vari testi e documenti, incluso il volume del 1930 intitolato appunto La rivoluzione permanente.
Il concetto fondamentale della rivoluzione permanente è che compito dei comunisti e del movimento operaio, in un dato paese ed internazionalmente, nel corso di un processo rivoluzionario è quello di
non limitarsi ad una rivoluzione democratica come tappa della marcia verso la rivoluzione socialista, qualunque siano le condizioni politiche e sociali da cui si parte, ma di prospettare una trascrescenza del processo rivoluzionario verso la rivoluzione proletaria, la dittatura del proletariato e l’inizio della transizione al socialismo, risolvendo in questo quadro gli stessi problemi democratici (riforma agraria, separazione tra Stato e Chiesa, abolizione delle caste, autodeterminazione nazionale, etc.).
La strategia della rivoluzione permanente è del resto quella applicata dai bolscevichi in Russia nel 1917, rigettando la teoria e la pratica opportunista dei menscevichi di limitarsi ad una “rivoluzione democratica” che mantenesse il regime capitalistico-borghese.
Lo sviluppo trotskiano negli anni ’20 e ’30 chiarisce che, nell’epoca dell’imperialismo, la strategia della rivoluzione permanente ha una valenza in ogni paese e sul piano mondiale, senza distinzione tra paesi “maturi” o no per la rivoluzione proletaria.
La storia successiva, nonostante la ripresa delle concezioni mensceviche della rivoluzione a tappe da parte degli stalinisti, ha confermato pienamente la validità della rivoluzione permanente.
Persino nelle situazioni particolari dove partiti stalinisti di sinistra, sotto la spinta di fattori eccezionali e nel quadro dell’esistenza dell’URSS come potenza mondiale ad economia socializzata, sono andati oltre le loro volontà nella rottura con imperialismo e borghesia (Jugoslavia, Albania, Cina, Vietnam, Cambogia, Laos) e hanno preso il potere, non si sono potute fermare ad una rivoluzione democratica, ma hanno realizzato una rivoluzione socialista, sia pure deformata. Lo stesso è valso per il partito nazionalista piccolo-borghese più radicale del mondo, a Cuba.
La concezione trotskiana della rivoluzione permanente segnala anche come, nell’epoca dell’imperialismo, la borghesia nazionale sia incapace di realizzare compitamente i compiti fondamentali della rivoluzione democratica.
Questa concezione è sembrata contraddetta nei decenni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale da vari regimi, essenzialmente a carattere piccolo-borghese, che senza realizzare una rivoluzione di tipo socialista, hanno realizzato, anche in contrasto con la propria borghesia filoimperialista e riducendone fortemente il peso politico ed economico, vere rivoluzioni democratico- sociali, quasi sempre con regimi di dittatura bonapartista di “sinistra”.
Sarebbe antimarxista negare questi avvenimenti imprevisti. Ma d’altro canto è necessario comprendere che essi hanno potuto verificarsi in un mondo che vedeva lo sviluppo deformato della rivoluzione del 1917 sul piano globale e nel quadro dello scontro tra i due “campi”, con più di un terzo del mondo furi dal domino diretto del capitalismo.
Del resto, dopo il crollo o la trasformazione degli Stati operai degenerati o deformati, l’insieme di questi Stati sono profondamente arretrati sul terreno delle conquiste sociali, sia a carattere democratico sia a carattere statalista, quasi sempre mantenendo tuttavia regimi a carattere dittatoriale di tipo bonapartista.
Lo sviluppo di questi fenomeni di “rivoluzioni permanenti incompiute”, che in generale hanno dato vita a stati la cui struttura sociale poteva definirsi come capitalismo di stato (ricordiamo tra gli altri l’Algeria, la Birmania, l’Egitto, l’Iraq, la Siria, l’Angola) hanno portato molti settori del movimento trotskista ad adattarsi, parzialmente o totalmente, a tali regimi, visti come socialisti e rivoluzionari. I trotskisti conseguenti rigettano con sdegno questa politica di appoggio a caricature di socialismo in mano ad élites piccolo-borghesi, il cui obbiettivo era cercare di creare le condizioni per trasformarsi al più presto in nuova borghesia, cosa che in generale è avvenuto negli ultimi decenni.
I trotskisti conseguenti non possono che essere all’opposizione di ogni regime che non sia una vera dittatura del proletariato.
La maggior parte delle volte congiunto, ma a volte disgiunto, all’adattamento ai regimi piccolo- borghesi è stato lo sviluppo teorico della concezione che vede la rivoluzione permanente come un processo oggettivo che si tratterebbe solo di seguire ed assecondare.
Naturalmente ci sono tendenze oggettive e soggettive nella lotta di classe proletaria che tendono a trascrescere verso una prospettiva di rovesciamento del capitalismo.
Ma la strategia della rivoluzione permanente, fin dal testo di Marx ed Engels, è fondamentalmente una guida per l’azione per il partito proletario comunista, che gli indica di porsi alla testa del processo rivoluzionario fin dal primo momento anche sul terreno degli obbiettivi democratici, contrapponendo la prospettiva della sua egemonia a quella delle forze borghesi e piccolo-borghesi e dirigendo il processo fino alla rivoluzione proletaria, alla dittatura del proletariato basata sulla democrazia dei consigli (sovietica) e all’apertura della transizione al socialismo.
4. Il partito mondiale della rivoluzione socialista
La realizzazione dei fini indicati necessita la presenza, come direzione del processo rivoluzionario di distruzione degli Stati borghesi e di costruzione della Repubblica mondiale dei consigli, di una organizzazione internazionale che rappresenti gli interessi storici del proletariato in quanto classe conseguentemente rivoluzionaria e basata sui fondamenti teorici e strategici del socialismo scientifico.
Tale organizzazione non può essere quindi che un’internazionale fermamente basata sui principi del marxismo e del leninismo della nostra epoca, cioè del trotskismo.
È necessaria la creazione di sezioni nazionali di tale internazionale in ogni paese del mondo, senza esclusione. Compito dei partiti trotskisti è di elevare il proletariato dalla sua spontanea coscienza di natura tradeunionistica fino alla coscienza socialista, trasformandolo da classe in sé a classe per sé; combattere le organizzazioni politiche borghesi e le agenzie della borghesia in seno al movimento proletario, oggi direzioni maggioritarie del movimento operaio, nonché tutte le forme di opportunismo e avventurismo presenti in seno al movimento delle masse. In queste condizioni il mantenimento dell’indipendenza politica dei trotskisti conseguenti è una necessità ineliminabile, anche quando, nel processo di costruzione del partito indipendente, fosse necessario il costituirsi per un periodo in frazione all’interno di altre organizzazioni politiche.
5. La lotta per la risoluzione della crisi di direzione del proletariato
I partiti socialdemocratici e riformisti di origine staliniana che, nella maggior parte degli Stati capitalistici, in particolare quelli imperialisti, rappresentano le principali direzioni del movimento di massa, costituiscono delle agenzie della borghesia in seno al movimento operaio (partiti operai- borghesi). Il legame di questi partiti con la borghesia e il suo Stato è un legame diretto nel caso dei partiti socialdemocratici e un legame storico indiretto nel caso dei partiti stalinisti, determinato e mediato dalle politiche della casta burocratica che governava in URSS o negli altri Stati operai degenerati o deformati. Il collasso dello stalinismo internazionale alla fine degli anni Ottanta ha modificato questa situazione. Alcuni partiti che nella fase precedente si erano progressivamente autonomizzati dalla burocrazia stalinista dell’URSS e avevano approfondito i legami con la borghesia del proprio paese (partiti eurocomunisti) si sono in alcuni casi trasformati in partiti di tipo neosocialdemocratico o direttamente borghese (come in Italia e Brasile) Altri, invece, rimasti strettamente legati alla burocrazia russa fino al suo collasso o impediti in una evoluzione puramente neosocialdemocratica dall’esistenza di significativi partiti socialdemocratici, hanno mantenuto il tradizionale riferimento formale al «comunismo». Il loro ruolo non è però sostanzialmente cambiato. Restano dei partiti riformisti operai-borghesi, agenzie della borghesia in seno al movimento operaio.
La politica dei partiti socialdemocratici e riformisti di origine stalinista è indirizzata alla difesa dello Stato borghese e dei rapporti di proprietà capitalistici.
Un ruolo analogo è svolto nei paesi oppressi dalle organizzazioni nazionaliste piccolo-borghesi.
Vacillando tra riformismo e trotskismo le direzioni centriste, cui possono essere assimilate le forze più radicali del nazionalismo piccolo-borghese e le organizzazioni di tipo anarchico tradizionale, pur non svolgendo una costante azione apertamente controrivoluzionaria, con la loro politica opportunistica e confusionista, costituiscono un ulteriore ostacolo alla rivoluzione proletaria.
I trotskisti conseguenti si pongono il compito di sconfiggere politicamente le organizzazioni riformiste, staliniste, centriste e nazionaliste e di distruggere la loro egemonia e il loro controllo organizzativo sul movimento operaio, con lo scopo di raccogliere attorno al programma del trotskismo la maggioranza politica del proletariato e i settori più vasti possibile delle altre classi oppresse dal capitalismo. Allo stesso modo i trotskisti conseguenti lottano per strappare le masse dall’influenza delle opposizioni riformiste e centriste negli Stati operai degenerati o deformati che ancora permangono.
Il trotskismo conseguente respinge come revisioniste le tesi che ipotizzano la trasformazione delle organizzazioni opportuniste in «direzioni rivoluzionarie» sotto la spinta del movimento di massa. Allo stesso modo rigetta la convinzione secondo cui le direzioni riformiste e/o centriste potrebbero essere rigenerate per un’evoluzione interna.
Il trotskismo conseguente lotta per il raggruppamento rivoluzionario, cioè per l’unificazione sulle basi programmatiche del bolscevismo delle forze di avanguardia del proletariato. In questo ambito può adottare ove le condizioni lo richiedano la tattica dell’entrismo nelle organizzazioni riformiste, centriste, nazionaliste piccolo-borghesi, con lo scopo di provocare la rottura degli elementi soggettivamente rivoluzionari con le loro direzioni e operarne così il raggruppamento su basi bolsceviche.
Il trotskismo conseguente rifiuta come revisionista la politica di unità dei rivoluzionari, cioè la posizione secondo la quale il partito rivoluzionario potrebbe nascere dalla fusione su basi vaghe e di mediazione tra il trotskismo e forze di tipo centrista. Allo stesso modo il trotskismo rigetta l’entrismo profondo o sui generis, cioè la politica che vuole ridurre il ruolo dei trotskisti a elementi di pressione all’interno dei partiti opportunisti, sulla base di illusioni revisioniste circa la possibile evoluzione complessiva o parziale di tali partiti. Infine, rigetta le posizioni di chi teorizza la sostituzione del ruolo del partito rivoluzionario da parte di pretesi Fronti Unici Rivoluzionari in cui il partito trotskista sarebbe solo una componente insieme a forze di tipo centrista preponderanti.
6. Gli Stati capitalisti
Le dinamiche fondamentali tra Stati capitalisti derivano dall’interazione tra la lotta di classe internazionale con le rivalità interimperialistiche e le contraddizioni tra imperialisti e nazioni oppresse. Queste dinamiche esprimono la contraddizione fondamentale del capitalismo, l’antagonismo tra le forze di produzione sempre più socializzate e interdipendenti e i rapporti di produzione privati, ancor più intensificata nell’epoca dell’imperialismo dalla contraddizione tra il carattere internazionale della produzione capitalistica e la limitazione dei confini nazionali.
Il tradimento collaborazionista delle burocrazie staliniste è stato ripetute volte decisivo nel procurare agli imperialisti la possibilità di evitare grandi sconfitte o arretramenti. All’interno del mondo coloniale o semicoloniale ha giocato lo stesso ruolo il tradimento delle direzioni nazionaliste borghesi e piccolo-borghesi. Quando le contraddizioni si sono intensificate, le nazioni imperialiste sono state costrette a fare maggiore affidamento sugli Stati ad insediamento coloniale (il Sudafrica dell’epoca dell’Apartheid, lo Stato sionista di Israele) e sulle popolazioni impiantate nel centro di territori semicoloniali, imperialiste esse stesse o profondamente dipendenti dai paesi imperialisti per la loro sopravvivenza, quali isole privilegiate, circondate da nazioni e popoli oppressi, per collaborare ai loro sforzi di mantenimento della dominazione economica sopra il mondo semicoloniale.
Nell’attuale epoca storica il marxismo opera nettamente una distinzione tra le diverse nazioni capitalistiche, distinguendo in particolare tra nazioni oppresse e nazioni che svolgono un ruolo di oppressore. I vari Stati capitalistici si suddividono in certe categorie fondamentali, basate su differenze qualitative tra loro nel livello di sviluppo delle forze produttive e sulle relazioni specifiche tra ogni economia nazionale e l’intero sistema imperialista, cioè nei confronti dell’economia capitalistica mondiale. Con questi criteri possiamo riconoscere tre tipi di stati capitalistici basati su tre livelli differenti di sviluppo economico: 1) Stati imperialisti; 2) Stati semicoloniali o, in generale, oppressi dall’imperialismo; 3) Stati con un livello intermedio di sviluppo capitalistico.
Gli Stati imperialisti (tra i quali i principali sono oggi USA, Cina, Germania, Giappone, Francia, Gran Bretagna, Italia, Russia e Canada), dominati dal capitale finanziario a carattere internazionale (esportazione di capitali) e dai grandi monopoli, rappresentano i dominatori del mondo, su cui operano un’azione di sfruttamento e rapina sulla base della divisione internazionale del lavoro, e hanno così per natura un ruolo di Stati oppressori. In essi le forze produttive hanno raggiunto un più ampio livello di sviluppo e il proletariato rappresenta la maggioranza della popolazione lavoratrice. In definitiva i destini della rivoluzione socialista si determinano sulla vittoria della rivoluzione proletaria nelle metropoli imperialiste.
I paesi semicoloniali o, in genere, oppressi dall’imperialismo (tra cui pochi territori minori rimasti in una situazione di colonia), comprendono una gamma di paesi con situazioni sociali assai diverse: la maggior parte dei paesi dell’Asia e tutti i paesi dell’Africa (eccetto il Sudafrica) e dell’America latina (eccetto Cuba) sono in questa categoria, come paesi il cui stadio di sviluppo delle forze produttive è in generale basso. Essi sono in genere sottoposti allo sfruttamento e alla rapina imperialista e, quasi ovunque, anche dove le trasformazioni nella divisione internazionale hanno portato nei decenni passati ad un massiccio sviluppo del proletariato, a partire da quello industriale, vi è una forte presenza sia di proletariato agrario (bracciantato) che di settori non proletari sfruttati ed oppressi dal capitalismo, in primo luogo contadini, che, infine, di settori semiproletari: le masse povere delle grandi periferie urbane.
Nei paesi oppressi i compiti democratici (indipendenza nazionale reale, riforma agraria, democrazia politica, etc.) hanno un’importanza centrale. Il trotskismo risponde a questa situazione sulla base della rivoluzione permanente. Si dà cioè il compito di raccogliere sotto la direzione del proletariato e del suo partito di avanguardia le masse semiproletarie, contadine e piccolo-borghesi in genere, e di attuare la dittatura del proletariato che, realizzando i compiti democratici, passerà senza soluzione di continuità a quelli socialisti, distruggendo la proprietà privata dei mezzi di produzione non solo dell’imperialismo ma anche della borghesia nazionale, e sostituendola con un’economia pianificata. Il trotskismo conseguente rifiuta ogni concezione che veda nella teoria della rivoluzione permanente solo una descrizione di un processo oggettivo: per il trotskismo, la rivoluzione permanente è una strategia d’azione e non può essere realizzata da altri.
Prima della restaurazione del capitalismo negli stati dell’Europa centro-orientale la soverchiante maggioranza dei paesi capitalisti era o imperialista o dominata e oppressa dall’imperialismo coloniale o semicoloniale. Esisteva tuttavia un piccolo gruppo di paesi capitalisti a un livello medio di sviluppo (per es. Portogallo e Grecia). La restaurazione capitalistica di cui sopra ha però portato alla rinascita di paesi a quel livello di sviluppo (che del resto, ad eccezione della piccola imperialista Cecoslovacchia, era il loro prima della trasformazione sociale del dopoguerra). Questi paesi non hanno acquisito un livello di sviluppo tale da aver portato alla creazione di grandi monopoli o di capitale finanziario a livello sovrannazionale, o se hanno visto l’inizio di un tale andamento, sono in seguito decaduti nell’attuale situazione. Però neppure si può guardare ad essi come a paesi semicoloniali. Generalmente essi sono legati alla catena imperialista. Nei paesi in cui si è attuata la restaurazione capitalistica esiste però, in conseguenza della precedente situazione economica postcapitalistica, una forte concentrazione di proletariato industriale.
Il riconoscere l’esistenza di nazioni che non sono né imperialiste né oppresse non deve essere confuso con la teoria revisionista del subimperialismo, che porta a equiparare i più sviluppati paesi semicoloniali (come l’Argentina, il Brasile, il Messico e l’Iran) con le nazioni imperialiste o, in ogni caso, con i paesi imperialisti meno sviluppati e più soggetti a crisi, che in effetti tradisce o per lo meno offusca la divisione del mondo capitalista in paesi capitalisti e paesi oppressi.
7. Gli Stati operai degenerati e deformati
La Rivoluzione russa del 1917 ha rappresentato la prima consolidata realizzazione della dittatura del proletariato, aprendo in tal modo una nuova epoca storica.
Tuttavia, l’arretratezza della situazione economico-sociale della Russia, la sconfitta della rivoluzione internazionale e le conseguenze sulla classe operaia e la sua avanguardia della guerra civile del 1918-’20 e le relative difficoltà economiche del nuovo stato portarono al trionfo di una casta burocratica che trovò il suo rappresentante principale in Stalin.
Assurta al potere negli anni Venti e consolidatasi negli anni Trenta, la burocrazia stalinista ha da allora parassitato lo Stato creato dalla rivoluzione e dai processi rivoluzionari nel mondo. Essa e/o le forze politiche ad essa legate hanno diretto e controllato alcuni di questi processi, in particolare nel periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale, fino all’abbattimento del capitalismo.
Ciò ha provocato la nascita, accanto all’originario Stato operaio degenerato dell’URSS (cui va aggiunta la Mongolia, trasformata socialmente in stretta connessione con l’URSS fin dagli anni Venti), di una serie di Stati operai burocraticamente deformati fin dalla loro origine.
Gli stati operai degenerati (URSS, Mongolia) e deformati (approssimativamente nell’ordine storico di fuoriuscita dai rapporti di proprietà capitalistici: Jugoslavia, Albania, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Germania Est, Corea del Nord, Cina, Vietnam, Cuba, Cambogia, Laos) sono stati caratterizzati dalla contraddizione tra il carattere socializzato (proletario) dei rapporti di produzione e quindi di proprietà, e il fatto che il proletariato fosse espropriato del potere politico da una casta burocratica di natura piccolo-borghese. Questa esercitava la propria dittatura oppressiva sulle masse e si serviva del suo potere politico per mantenere e rafforzare i privilegi materiali di cui godeva in virtù del carattere borghese dei rapporti di distribuzione.
La burocrazia dominante costituiva un ostacolo fondamentale per ogni ulteriore progresso verso il socialismo, e la difesa dei suoi interessi materiali e del suo potere politico ne faceva un elemento fondamentale di perturbazione e blocco allo sviluppo dello Stato operaio e altresì un veicolo della riproduzione della pressione esercitata dal mondo capitalistico su di esso. Per tutto ciò il compito del proletariato doveva essere quello di rovesciare, con una rivoluzione politica, la casta burocratica stalinista dominante, il cui potere tendeva in definitiva a mettere in causa le stesse basi sociali dello stato.
Il trotskismo conseguente ha rifiutato la concezione secondo la quale fra lo Stato operaio (dittatura del proletariato) e lo Stato operaio degenerato sarebbe esistita una semplice differenza quantitativa e non una netta differenza qualitativa. Conseguentemente ha rigettato la concezione che considerava la burocrazia parassitaria una componente del movimento proletario. Ha rigettato inoltre come revisioniste e liquidazioniste le teorie sulla possibilità di pacifica rigenerazione di tutti o di alcuni Stati operai degenerati e/o deformati tramite un processo di autoriforma o di riforma sotto la pressione della mobilitazione delle masse. A più forte ragione ha rifiutato le posizioni revisioniste che consideravano alcune burocrazie staliniste dominanti (in particolare quella cubana) come Stato operaio non deformato.
La situazione sopra descritta si è profondamente e drammaticamente modificata a partire dalla fine degli anni Ottanta.
Nel Programma di transizione del 1938 Trotsky affermava in riferimento all’URSS: «Il pronostico politico ha un carattere alternativo: o la burocrazia, divenendo sempre di più l’organo della borghesia mondiale nello Stato operaio, distrugge le nuove forme di proprietà e respinge il paese nel capitalismo, o la classe operaia schiaccia la burocrazia e si apre una via verso il socialismo».
Nel quadro di una situazione internazionale negativa — caratterizzata anche dall’assenza di una direzione conseguentemente rivoluzionaria internazionale, anche minoritaria — e a causa anche del peso sulla classe operaia degli Stati degenerati o deformati di una pluridecennale oppressione stalinista, è stata la prima ipotesi a realizzarsi. Di fronte alle contraddizioni sempre più gravi del suo dominio la burocrazia, nella sua larga maggioranza, si è posta sul terreno della restaurazione del capitalismo.
Questo ha provocato il tracollo, in forme parzialmente differenti, dell’URSS, dei regimi degli Stati operai deformati dell’Europa dell’Est e dello Stato operaio degenerato della Mongolia (a cui si è aggiunta, in un quadro storico-politico differente, la Cambogia) con la costituzione di regimi e apparati statali a carattere borghese. Questi hanno sviluppato il processo di restaurazione capitalista e creato nuovi Stati borghesi in genere, come già indicato, a medio sviluppo capitalistico. Ciò salvo la Russia, che forte del suo peso demografico, militare e in parte, anche economico si è andata consolidando come paese imperialista.
In altri paesi (Cina, Vietnam, Laos) la burocrazia è riuscita a sviluppare un progetto restaurazionista, evitando i contraccolpi negativi avvenuti inizialmente in URSS e nell’Est Europa. Ha sviluppato quindi tale processo mantenendo al contempo le forme di controllo burocratico-statale sul processo stesso. Ma ciò non elimina in niente l’avvenuta restaurazione capitalistica, che solo prende le forme di un capitalismo di stato; ciò non nel senso della sciocca e antimarxista teoria di diversi revisionisti del trotskismo (Cliff, Dunayevskaya) rispetto ai precedenti Stati operai burocraticamente dominati, ma in quello proprio (utilizzato ad esempio da Lenin), cioè di una economia capitalistica con un forte controllo e anche presenza economica dello Stato e del suo apparato dirigente.
La comprensione di questo elemento è oggi essenziale per i trotskisti. Infatti, il processo di cui sopra ha portato la Cina a svilupparsi in senso imperialista, diventando la seconda potenza mondiale dopo gli USA e, anzi, il loro confronto costituisce l’aspetto fondamentale della politica mondiale e sarebbe assurdo non comprenderlo e non tenerne conto nella politica internazionale dei marxisti rivoluzionari.
La burocrazia cubana, che avrebbe voluto mantenersi nella precedente situazione, incapace di sviluppare una prospettiva alternativa rivoluzionaria, si è rassegnata a seguire gli esempi precedenti però a passo di tartaruga, aprendo anch’essa un processo di graduale restaurazione. Il salto di qualità non è ancora avvenuto, ma Cuba è oggi uno stato operaio deformato in dissoluzione.
Ad oggi, solo la Corea del Nord rimane uno stato operaio deformato nei termini originari (nonostante alcune limitate aperture a piccoli settori di neoborghesia interna e l’esistenza di zone speciali di investimento estero), sottoposto ad uno dei più oppressivi regimi stalinisti della storia.
8. Guerre tra nazioni
Nei confronti dei conflitti tra i diversi Stati e nazioni, le posizioni del trotskismo conseguente sono così determinate:
- il trotskismo adotta una posizione di disfattismo rivoluzionario nei conflitti tra gli Stati imperialisti che sono determinati dalla lotta per la spartizione dei mercati e del dominio economico del mondo;
- il trotskismo difende incondizionatamente gli Stati semicoloniali e oppressi nei confronti delle potenze imperialiste e degli Stati a medio sviluppo capitalistico. La difesa incondizionata di questi stati non significa in nessun caso appoggio politico ai regimi feudal-borghesi, borghesi, o piccolo-borghesi degli Stati oppressi;
- il trotskismo difende incondizionatamente il diritto all’autodeterminazione di tutte le nazioni oppresse e la loro lotta per realizzarlo. Questo, in primo luogo, nei confronti dell’oppressione imperialista, ma anche quando l’oppressione sia esercitata da stati semicoloniali o a loro volta oppressi dell’imperialismo (ad esempio il Kurdistan oppresso da Iran, Iraq e Siria oltre che dalla Turchia);
- il trotskismo difende incondizionatamente gli Stati operai deformati ancora esistenti nei conflitti tra questi e gli Stati capitalisti. Questa posizione non significa in alcun caso appoggio politico alla burocrazia parassitaria dominante.
In ogni caso i trotskisti cercano di sfruttare la situazione determinata dai conflitti per giungere all’abbattimento della borghesia o della burocrazia parassitaria e instaurare la dittatura del proletariato. Essi, infatti, rigettano il puro pacifismo proprio di settori borghesi progressisti o isolazionisti e soprattutto dei settori della sinistra piccolo-borghese democratica. L’unica condizione per salvare l’umanità dalle guerre è infatti la rivoluzione socialista. Nei paesi imperialisti in particolare i trotskisti rivendicano pienamente la tradizione del bolscevismo nei confronti della Prima guerra mondiale: dichiarando che il nemico principale è nel proprio paese, essi lottano per la trasformazione della guerra imperialista in guerra di classe contro la propria borghesia.
9. Il Programma di transizione
Il Programma di transizione adottato come documento centrale al Congresso di fondazione della Quarta Internazionale (1938) costituisce un fondamentale riferimento per l’azione del trotskismo. I trotskisti rivendicano il metodo, le indicazioni strategiche e quelle tattiche generali del Programma di transizione. È solo su queste basi che può essere avanzata oggigiorno una politica coerentemente rivoluzionaria.
I trotskisti conseguenti rigettano le concezioni revisioniste secondo cui il Programma di transizione costituirebbe un documento storicamente superato e inattuale o rivendicabile solo nel metodo. Ciò costituisce soltanto un mascherato abbandono dell’essenza del Programma di transizione come programma d’azione del bolscevismo.
I trotskisti conseguenti si danno il compito di sviluppare e aggiornare sulle sue proprie basi il Programma di transizione alla luce degli avvenimenti postbellici e della situazione contemporanea.
10. La lotta per il governo operaio
Punto centrale della strategia rivoluzionaria è la lotta per il governo operaio (operaio-contadino). Nella sua prospettiva strategica generale il termine governo operaio costituisce un’espressione popolare della dittatura del proletariato. In questo senso esso è realizzabile in generale solo come governo del partito trotskista o da questo egemonizzato.
Nella misura in cui la direzione delle masse proletarie e contadine non si trovi unicamente nelle mani del partito trotskista ma in quelle dei partiti operai-borghesi o nazionalisti piccolo-borghesi, i trotskisti devono contrapporre alla collaborazione di classe la necessità dell’unità dell’insieme del movimento proletario e delle masse su un programma anticapitalistico, avanzando la prospettiva di un governo operaio (operaio-contadino). Come afferma il Programma di transizione: «A tutti i partiti e le organizzazioni che si basano sugli operai e i contadini e parlano in loro nome, noi chiediamo di rompere politicamente con la borghesia e di entrare sulla via della lotta per il potere degli operai e dei contadini. Su questa via noi promettiamo loro un sostegno contro la reazione capitalista. Nello stesso tempo, noi dispieghiamo un’agitazione instancabile intorno alle rivendicazioni transitorie, che dovrebbero, a nostro avviso, costituire il programma del governo operaio e contadino».
Lo scopo essenziale di questa tattica è quello di contrapporre le aspirazioni anticapitalistiche della base proletaria e popolare alla politica controrivoluzionaria delle loro direzioni piccolo-borghesi, per favorire il raggruppamento rivoluzionario dell’avanguardia proletaria, lo sviluppo della coscienza delle masse e l’evoluzione in senso rivoluzionario della lotta tra le classi.
I trotskisti rigettano la concezione revisionista secondo la quale la costituzione di un governo operaio e contadino da parte delle organizzazioni opportuniste costituisce una tappa inevitabile nello sviluppo della lotta per la rivoluzione socialista, perciò lanciano l’indicazione di lotta per un governo operaio e contadino basato su un programma anticapitalistico e rifiutano per principio ogni appoggio a un governo dei soli partiti operai-borghesi o nazionalisti piccolo-borghesi che sia basato su un programma di difesa della proprietà e dello Stato capitalistici, governo che costituisce solo una forma mascherata di collaborazione con la borghesia.
Inoltre, anche nel caso eccezionale, ma non irrealizzabile, come lo ha dimostrato l’esperienza del dopoguerra, che dei partiti piccolo-borghesi rompano effettivamente con la borghesia e costituiscano un governo operaio e contadino, i trotskisti gli offriranno un appoggio incondizionato contro la reazione capitalista (Programma di transizione), ma non un sostegno politico incondizionato. L’atteggiamento dei trotskisti sarà sempre determinato dallo scopo centrale della loro azione: la costituzione di un governo proletario egemonizzato dal partito trotskista, unica garanzia della continuità rivoluzionaria del governo operaio.
A questo scopo noi lottiamo sulle basi del nostro programma di obiettivi, sia contro i governi capitalisti che contro quelli burocratico-stalinisti per la costruzione di organismi di controllo operaio sulla produzione, di autodifesa operaia e per comitati di fabbrica di potere operaio, comitati di occupazione, milizie operaie e soviet. Solo sulla base di tali organi di dualità di potere la classe operaia può, guidata da un partito rivoluzionario, sviluppare la necessaria forza indipendente per arrivare a superare il governo capitalistico e instaurare la dittatura del proletariato.
11. Il fronte unico
A. Il fronte unico proletario
La tattica della lotta per il governo operaio costituisce un aspetto centrale della più ampia tattica del fronte unico. Da un punto di vista generale i trotskisti lottano per l’unità del proletariato e delle masse oppresse su obiettivi anticapitalistici. In questo quadro si propongono accordi tattici, anche di ampio respiro, alle organizzazioni opportuniste del movimento operaio. Riconosciamo che solo con la lotta per vincere forze sufficienti al nostro programma possiamo sperare di forzare i leader istituzionali del movimento operaio a un’alleanza con i trotskisti. Gli scopi di questa politica sono gli stessi già indicati per la tattica del governo operaio: contrapporre le aspirazioni anticapitalistiche della base proletaria alla politica dei vertici, favorire il raggruppamento rivoluzionario, sviluppare la coscienza delle masse; inoltre, soprattutto nella misura in cui il fronte unico si realizzi, ottenere successi parziali, sia offensivi che difensivi, contro la borghesia.
In tutte le occasioni in cui il fronte unico proletario sia effettivamente realizzato, lo scopo del partito trotskista è quello di affermare la propria egemonia politica sullo stesso. I trotskisti conseguenti rifiutano la politica revisionista che trasforma il fronte unico in una strategia per l’azione anticapitalistica, la costruzione del partito o la presa del potere da parte del proletariato, così rinunciando al ruolo di partito d’avanguardia. I trotskisti rifiutano inoltre la concezione per cui la realizzazione del fronte unico sia positiva di per sé, senza porre una discriminante sugli obiettivi su cui si basa, rifiutano anche accordi che contemplino la cessazione della battaglia politica tra i partiti interessati.
B. Il fronte unico antimperialista
Nella maggioranza dei paesi oppressi, ove vi è una vasta presenza di settori non proletari poveri e oppressi dal capitalismo e gli obiettivi democratici hanno un ruolo centrale, i trotskisti possono realizzare con i partiti e le organizzazioni nazionaliste piccolo-borghesi accordi tattici di fronte unico antimperialista. All’interno di simili fronti unici antimperialisti, i trotskisti lottano generalmente per il massimo di unità con la direzione delle forze proletarie e in particolare per la direzione rivoluzionaria del partito trotskista. Essi rifiutano invece la posizione revisionista che, partendo dalla natura dei paesi oppressi dall’imperialismo e dalla centralità della lotta contro di esso, sostiene la possibilità di realizzare accordi di fronte unico antimperialista con la borghesia nazionale del paese oppresso. Per il trotskismo il fronte unico antimperialista è, come afferma Trotsky (La rivoluzione in India, suoi compiti e pericoli, 30 maggio 1930): «Un blocco di operai, contadini e piccola borghesia [..] diretto non solo contro l’imperialismo e il feudalesimo, ma anche contro la borghesia nazionale, che ad essi è legata in tutte le questioni fondamentali».
Nella misura in cui i partiti della borghesia nazionale si scontrino con l’imperialismo è possibile realizzare con essi dei limitati accordi pratici allo scopo di mettere in pratica la politica di difesa incondizionata delle nazioni oppresse contro l’imperialismo, ma mai un fronte unico.
C. Il fronte unico contro la burocrazia stalinista
Analogamente a quanto detto per i paesi capitalisti, negli Stati operai deformati ancora esistenti (cioè, come indicato al punto 6, solo Cuba e Corea del Nord) solo è possibile (come in passato negli allora numerosi Stati operai degenerati e deformati) stabilire alleanze di fronte unico con gli oppositori riformisti e centristi della burocrazia stalinista. Tuttavia, non con gli elementi pro- imperialisti e restaurazionisti.
Essenzialmente, una simile politica di fronte unico è semplicemente una applicazione del fronte unico proletario relativa alle condizioni particolari di questi paesi. In parte, lo scopo del fronte unico contro la burocrazia stalinista è di unire la classe operaia di questi paesi sia contro l’oppressore stalinista, e in difesa delle relazioni di proprietà collettiva contro le minacce e le distorsioni del sistema capitalistico, che contro le false pretese della burocrazia di essere il difensore del socialismo e contro il ruolo ostacolante pieno utilizzo delle forze di produzione collettivizzate, tendenzialmente compatibile e interagente con la potenza auto-rigenerativa dell’ecosfera, da essa sostenuto. Una tale politica di fronte unico ha inoltre come scopo fondamentale di facilitare la lotta dei trotskisti per guadagnare la direzione del movimento operaio negli Stati operai deformati ancora esistenti, quindi di portare la maggioranza politica di questi lavoratori dalle concezioni riformiste e centriste al programma trotskista di rivoluzione politica, attraverso le esperienze dirette all’interno delle lotte concrete, al fine di soppiantare la burocrazia e creare un sano Stato operaio basato sui soviet rivoluzionari. Lotta che oggi diventa lotta per la difesa dello Stato operaio e delle conquiste socialiste contro una burocrazia che, anche in considerazione di quanto è avvenuto nella stragrande maggioranza degli Stati operai degenerati e deformati, diventa sempre più restaurazionista.
Ancor oltre, in questi Stati operai deformati, dove larghe masse contadine soffrono con la classe operaia della tirannia della burocrazia, i trotskisti devono lottare per alleanze di fronte unico tra gli elementi più oppressi dei contadini e le forze politiche che si oppongono alla burocrazia, allo scopo di guadagnare i primi, allontanandoli dalle tendenze di restaurazione capitalistica, ad accettare la direzione della classe operaia nella lotta per uno sviluppo rapido, socialista ed eco-sostenibile dell’agricoltura, con una attenta pianificazione socialista, qualitativa e quantitativa, che interagisca con un rinnovato sistema di produzione industriale.
12. La lotta di classe proletaria e l’orientamento verso gli operai d’avanguardia
Il principale terreno di intervento dei rivoluzionari è costituito dalla classe operaia, per guadagnarne l’avanguardia alla militanza nel partito marxista rivoluzionario e la maggioranza politica al sostegno del suo programma e della sua azione. Poiché la forma elementare di organizzazione della classe in quanto tale è rappresentata dalle organizzazioni sindacali, compito centrale dei trotskisti è l’intervento al loro interno. Nella quasi totalità dei paesi in cui esse hanno una qualche indipendenza dallo Stato, sono dirette da burocrazie piccolo-borghesi, agenti diretti o indiretti della borghesia. La lotta per scacciare tali burocrazie dalla direzione dei sindacati e sostituirle con una direzione rivoluzionaria, garantendone l’indipendenza nei confronti dello Stato borghese, è il compito centrale dei trotskisti.
Per realizzare i loro fini all’interno dei sindacati i trotskisti devono organizzare sotto la propria egemonia politica delle frazioni sindacali rivoluzionarie aperte alla partecipazione non solo dei militanti e simpatizzanti dei partiti marxisti rivoluzionari ma a tutti gli attivisti conseguentemente classisti. Il programma di tali frazioni deve basarsi sulle indicazioni generali strategiche e tattiche del Programma di transizione. I trotskisti possono certamente partecipare a più ampi raggruppamenti di opposizione antiburocratica nei sindacati (sinistra sindacale larga), ma devono vedere tale azione come un passo transitorio mantenendo come loro scopo quello di costruire, a partire dall’azione in tali raggruppamenti larghi, delle vere frazioni sindacali classiste rivoluzionarie.
Il trotskismo conseguente rigetta la posizione secondo la quale, poiché i sindacati hanno un ruolo differente da quello del partito rivoluzionario (cioè in primo luogo la difesa delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia), essi non potrebbero essere conquistati a un vero programma rivoluzionario, ma solo a una prospettiva di combattività rivendicativa. I trotskisti considerano che i sindacati, benché non possano avere un programma e una attività rivoluzionaria compiuti, possono e devono essere trasformati in organizzazioni ausiliarie della rivoluzione proletaria, facendoli uscire sia da un’azione politica di appoggio allo Stato borghese, sia dal puro sindacalismo. Nel loro lavoro nei sindacati e nell’insieme delle loro attività, l’orientamento principale dei trotskisti è verso gli operai d’avanguardia, quegli operai più pronti sia nelle parole che nei fatti ad opporsi ai capitalisti e a estendere le lezioni della loro lotta alla comprensione della natura oppressiva e sfruttatrice del sistema capitalistico nel suo insieme e della necessità della sua sconfitta. I partiti trotskisti, perciò, cercano attivamente e sistematicamente non solo di intervenire nei sindacati operai e in altre lotte e di combattere per la loro direzione, ma anche di guadagnare i comunisti operai ai partiti trotskisti, attraverso le lotte, e di sviluppare questi nuovi quadri operai. In questo modo i trotskisti approfondiscono sia il radicamento del trotskismo nella classe che la proletarizzazione dei loro partiti.
13. Unificazione di tutti gli oppressi e sfruttati sotto direzione proletaria
Il proletariato ed il suo partito devono operare come tribuni del popolo, campioni di tutti gli oppressi e sfruttati. Di fatto, la maggioranza dell’umanità è soggetta a forme di oppressione specifiche, non riducibili alla pura oppressione di classe. A partire da diversi fondamenti storici, esse comprendono in primo luogo: l’oppressione delle donne, degli omosessuali, delle lesbiche (o, più in generale, delle persone LGBTQ+), dei giovani, l’oppressione razziale, quella dei disabili, e quella delle minoranze nazionali religiose e di casta.
Il partito rivoluzionario deve promuovere movimenti di massa degli oppressi e sfruttati su queste tematiche, mobilitando non solo il proletariato, ma anche i ceti medi oppressi.
Questi movimenti di massa non sono esclusivamente proletari. Lottano su contraddizioni non risolvibili senza l’abbattimento dello Stato borghese e del capitalismo, e sono quindi continuamente portati a confliggere con la classe borghese ed il suo Stato. I trotskisti devono intervenire con metodo analogo a quello adottato per l’intervento nelle lotte del proletariato, basandosi cioè sul metodo e contenuto del Programma di transizione.
Devono lottare contro le direzioni piccolo-borghesi (in certi casi anche borghesi) di questi movimenti, per l’egemonia proletaria sui movimenti di massa non proletari. Quest’impostazione comporta due aspetti paralleli: da un lato, la lotta in seno al proletariato perché questo si faccia direttamente carico degli obiettivi dei movimenti di massa non proletaria, ciò che presuppone una lotta diretta contro ideologie ed atteggiamenti reazionari presenti nella stessa classe operaia (per es. razzismo, sessismo, pregiudizi contro gli omosessuali, etc.); d’altro lato, l’attività in seno a questi movimenti per sconfiggere l’ideologia borghese e riformista, nonché le posizioni autonomiste o separatiste, e per portare ciascuno di questi movimenti a comprendere che solo partecipando ad un’alleanza diretta dalla classe operaia rivoluzionaria contro la borghesia essi hanno reali possibilità di vincere.
In particolare, laddove i settori della classe operaia soggetti ad oppressione particolare tendono ad essere particolarmente combattivi e classisti, l’intervento dei trotskisti nei movimenti di massa e nelle lotte degli strati specialmente oppressi è parte essenziale del processo di mobilitazione dell’avanguardia proletaria, conquista dei lavoratori più avanzati al programma rivoluzionario, costruzione della direzione rivoluzionaria della classe operaia.
In tutti i movimenti di massa, generalmente poco o nulla organizzati per la loro instabilità, i trotskisti si battono per la costruzione di organizzazioni di massa ben strutturate. Dov’esse esistano o vengano costruite sotto direzione opportunista, i trotskisti devono lavorarvi come nei sindacati, cioè formando tendenze rivoluzionarie sulla linea generale del Programma di transizione, con l’obiettivo di conquistare la direzione di tali organizzazioni. I trotskisti conseguenti respingono come revisioniste le posizioni secondo cui i movimenti di massa dovrebbero svilupparsi autonomamente, e per cui, quindi, i trotskisti dovrebbero soltanto parteciparvi senza lottare per conquistarli ad una prospettiva proletaria.
14. Il centralismo democratico internazionale
Il trotskismo considera come base primaria e irrinunciabile della struttura dell’organizzazione politica rivoluzionaria il centralismo democratico. I suoi principi implicano il diritto al libero dibattito interno e il dovere alla disciplina con la subordinazione della minoranza alla maggioranza. Il centralismo democratico comprende il diritto di costituire all’interno dell’organizzazione rivoluzionaria sia tendenze che frazioni. Il centralismo democratico deve essere vigente sia a livello nazionale che internazionale, sia nella Quarta Internazionale rifondata che nelle diverse fasi di organizzazione dei trotskisti conseguenti durante la lotta contro il revisionismo.
Il trotskismo conseguente respinge la concezione secondo cui il centralismo democratico deve vigere compiutamente solo a livello nazionale, mentre a livello internazionale deve trovare dei limiti nel rispetto dell’autonomia dei singoli partiti nazionali. Allo stesso modo respinge la pratica di organizzazioni mondiali le cui diverse frazioni conducono una politica sostanzialmente indipendente. Rifiuta altresì la pratica di chi in nome del centralismo democratico blocca ogni possibilità reale di lotta di tendenze o frazioni.
Rigetta la concezione che distingue tra organizzazioni nazionali maggiori e quindi incaricate di dare la linea, e minori che a esse devono subordinarsi. Rifiuta infine la concezione che accetta la prospettiva del centralismo democratico solo per l’internazionale rifondata del futuro e non per le fasi di organizzazione internazionale transitorie a tale fine.