Con questo testo vogliamo offrire un contributo di riflessione alle compagne e ai compagni che militano in SCR e nella TMI, o che si avvicinano all’organizzazione. Disponibili come sempre ad ogni confronto e approfondimento. Come vuole la tradizione leninista. Sul sito del Partito Comunista dei Lavoratori (PCL), l’articolo è qui, oppure in formato PDF qui.
Uno dei tratti caratterizzanti di questa corrente è la sua autoproclamazione come unica corrente marxista esistente al mondo. Tutte le altre organizzazioni del movimento trotskista, nazionali o internazionali, vengono denunciate come sette ai margini del movimento operaio e trattate in termini sprezzanti. Ciò anche in presenza di organizzazioni trotskiste infinitamente più radicate e rappresentative delle sezioni locali della TMI, come nel caso dell’Argentina e della Francia (dove la TMI è totalmente marginale o poco più che virtuale). In realtà, come è facile capire, non c’è concezione più settaria di quella che denuncia indistintamente il grosso del movimento trotskista al mondo come “setta”. Questo settarismo autocentrato della TMI ha un preciso fondamento politico-teorico che riposa nella sua genesi e nella sua storia. Conoscerla è decisivo per comprendere la cifra attuale della TMI.
Le origini della TMI
L’attuale TMI nasce da una scissione minoritaria del Comitato per una Internazionale dei Lavoratori (CWI—Committee for a Workers’ International) avvenuta nel 1992. Il CWI ha le sue radici nella storia della sezione britannica della Quarta Internazionale, precisamente nella sua frazione di maggioranza all’interno del RCP (Partito Comunista Rivoluzionario) diretta da Ted Grant.
Nella Conferenza Internazionale ricostitutiva del 1946 e nel secondo Congresso mondiale del 1948 Grant aveva criticato correttamente la posizione maggioritaria dell’Internazionale, che negava la ripresa capitalistica del dopoguerra e l’espansione dello stalinismo. Al tempo stesso rifiutò la politica di entrismo totale nel Labour Party proposta dal Segretariato Internazionale e che venne applicata in seguito dalla minoranza della sezione britannica (guidata da Gerry Healy). Da qui la marginalizzazione di Grant nell’Internazionale.
Il fallimento della costruzione di una organizzazione indipendente a sinistra del Labour Party indusse Grant nel 1950 a sciogliere il RCP e a ricomporsi con la frazione guidata da Healy che lavorava nel Labour Party. Ma Healy espulse Grant e i pochi militanti rimasti con lui con metodi burocratici. Il risultato fu che Grant si trovò fuori dal movimento trotskista internazionale proprio negli anni cruciali della sua crisi (1951–1953), quando la maggioranza dell’Internazionale, guidata da Michel Pablo, reagì alla smentita dell’ottimismo ingenuo del dopoguerra (crisi mondiale del capitalismo, imminenza della rivoluzione mondiale) con l’adattamento allo stalinismo, nel nome di un ultracatastrofismo (la Terza guerra mondiale imminente). Una svolta revisionista profonda che attribuì allo stalinismo un ruolo storico progressivo, avviò l’entrismo sui generis nei partiti stalinisti, ridusse il ruolo del trotskismo alla pressione critica sullo stalinismo, rinunciò alla costruzione di partiti trotskisti indipendenti. Una degenerazione centrista dagli effetti duraturi e devastanti sulla vita e la storia dell’intero movimento trotskista internazionale.
Ted Grant si trovò fuori dalla battaglia internazionale contro il revisionismo pablista, proprio negli anni decisivi. In compenso provvide con estrema spregiudicatezza a capitalizzarne gli effetti. Siccome la sezione britannica guidata da Gerry Healy aveva respinto la svolta revisionista dando vita al Comitato Internazionale della Quarta Internazionale (assieme al PCI di Francia, alla sezione svizzera, e al prestigioso Socialist Workers Party americano), Ted Grant cercò uno spazio di rientro nell’Internazionale pablista: senza porre la minima questione politica circa le divergenze passate e presenti, si offrì al Segretariato Internazionale come sua sezione britannica. Il Segretariato Internazionale naturalmente accettò con pari disinvoltura (1957). L’organizzazione britannica di Grant rimarrà nel Segretariato Internazionale pablista per otto anni, sino al 1965, allorché il Segretariato Unificato (SU) la retrocesse ad organizzazione simpatizzante, assumendo nel 1969 a sezione ufficiale un altro gruppo britannico (guidato da Pat Jordan e Ken Coates). Fu solo allora, nel 1965, che il gruppo di Grant si separò dal Segretariato Unificato. È significativo che sia sugli anni della scissione della Quarta Internazionale (1951–1953), sia sugli anni della propria permanenza nella tendenza internazionale pablista (1957–1965) la storiografia di matrice grantista, generalmente così prolifica, risulti particolarmente avara.
Tuttavia, l’elaborazione teorica di Ted Grant aveva già conosciuto una svolta importante nel 1959. In quell’anno Grant produceva un testo intitolato Problemi dell’entrismo, che getterà le basi di tutta l’impostazione strategica successiva della sua corrente. Capovolgendo il proprio (sbagliato) rifiuto dell’entrismo nel Labour Party negli anni ‘40, Grant teorizzò di punto in bianco la necessità di un entrismo strategico a tempo indeterminato non solo nel Labour Party britannico, ma in generale in tutti i partiti riformisti con base di massa, in particolare nei partiti socialdemocratici. Il fatto che la narrazione storiografica di Grant rivendichi al tempo stesso sia l’entrismo strategico nel Labour Party sia il proprio assurdo rifiuto dell’entrismo negli anni ‘40 non ha alcun rapporto con la logica, quanto col mito dell’infallibilità di Grant.
La svolta dell’entrismo strategico (1959)
L’entrismo strategico rappresentava una revisione del trotskismo. Trotsky aveva rivendicato negli anni ‘30 una tattica entrista in diversi partiti socialdemocratici, nel momento in cui conoscevano al proprio interno lo sviluppo di forti tendenze di sinistra, ai fini di un raggruppamento rivoluzionario delle forze per la costruzione di partiti indipendenti. Nella concezione di Trotsky, e nella pratica che ne seguì (in particolare in Francia e negli USA), la tattica dell’entrismo incorporava in sé, sin dall’inizio, la prospettiva della rottura con le socialdemocrazie. Di più: era esattamente in funzione di quella prospettiva. L’entrismo strategico di Grant rimuoveva invece proprio quello sbocco.
La nuova teoria era questa: siccome le masse assumono a riferimento i grandi partiti operai, e siccome i trotskisti non debbono separarsi dalle masse, il ruolo dei rivoluzionari diventa quello di difendere le idee del marxismo all’interno dei partiti socialdemocratici di massa. Punto. Naturalmente Grant non negava in astratto da un punto di vista teorico la necessità del partito rivoluzionario ai fini della prospettiva socialista. Semplicemente la rimuoveva dalla propria azione politica, affidandola alla storia. La politica del raggruppamento rivoluzionario in funzione della costruzione del partito leninista veniva rimpiazzata da un posizionamento propagandistico sine die all’interno delle socialdemocrazie, in attesa degli “avvenimenti” della storia.
Ancora nel 1970 Ted Grant scriveva:
Sulla base degli avvenimenti, tendenze rivoluzionarie di massa nei paesi dell’Occidente, dove lo stalinismo è la corrente principale, si formeranno nei partiti comunisti e, dove i riformisti sono una tendenza di massa, nei partiti socialdemocratici […]. A livello nazionale e internazionale, le idee della nostra tendenza possono conquistare in quest’epoca un appoggio di massa. (Ted Grant, Programme of the International, nostra traduzione)
Si trattava dunque di preservare la presenza entrista nei partiti stalinisti o socialdemocratici in attesa degli “avvenimenti” e delle masse. In realtà, anche quando gli “avvenimenti” giunsero (il Maggio 1968 in Francia, l’ascesa di massa in Italia fra il 1969 e il 1976, la rivoluzione portoghese del 1974-1975) senza che sorgessero nei partiti riformisti le attese “tendenze rivoluzionarie di massa” (ma col formarsi alla loro sinistra di significativi spazi per l’avanguardia) la linea teorizzata da Grant era quella di restare ad ogni costo nei partiti di massa: nel PCF che aveva tradito il Maggio francese, nel PCI del compromesso storico, nel PS controrivoluzionario portoghese. Alla loro sinistra, infatti, vi sarebbe stato solo lo spazio per le famigerate “sette”.
Questo fu il cardine di tutta la politica di Grant per quasi l’intero dopoguerra. Una politica autoconservativa coperta da previsioni messianiche, regolarmente smentite. Quando la maggioranza della sua corrente internazionale nel 1991–1992, dopo il crollo dell’URSS, mise in discussione questo pilastro, avviando una svolta a sinistra, seppur contraddittoria, Grant raccolse attorno a sé una minoranza che preservò la vecchia impostazione entrista strategica. L’attuale TMI è nata nel 1992 da questa scissione di minoranza del CWI.
Si potrebbe dire che tutto questo riguarda il passato, ma non è così. L’entrismo strategico nelle socialdemocrazie ha avuto conseguenze multiple su diversi aspetti della politica di Grant. Non si trattava semplicemente di una teoria revisionista. Ma di una esperienza politica prolungata che esponeva l’organizzazione alle inevitabili pressioni dell’ambiente socialdemocratico. Tali pressioni non cancellarono nel pensiero di Grant il riferimento al marxismo rivoluzionario, che anzi venne costantemente ribadito e professato. Ma certo produssero adattamenti politici, con riflessi teorici profondi. Riflessi teorici antileninisti che si sono mantenuti nel tempo e che tuttora rappresentano il codice identificativo della TMI sul piano internazionale.
È vero: la TMI ha conosciuto negli ultimi anni una parziale svolta “a sinistra”, nella forma della retorica esaltativa di una presunta radicalizzazione di massa della classe operaia e della gioventù del mondo quale effetto della catastrofe economica del capitalismo. Vedremo più avanti la natura impressionistica di questa svolta e la falsità del metodo interpretativo su cui si fonda. Ma è significativo che la parziale svolta a sinistra conviva con l’eredità di un patrimonio genetico immutato. Il patrimonio di una distorsione centrista del trotskismo.
Grant e Woods contro il Che fare? di Lenin
Un primo esempio è rappresentato dall’esplicita critica di Grant alla concezione leninista del Che fare? attorno al tema della coscienza proletaria. Per Lenin la coscienza spontanea della classe lavoratrice è di tipo tradunionista. La funzione fondamentale del partito d’avanguardia è quella di portare nella classe una coscienza politica socialista. Questa coscienza non matura spontaneamente dall’esperienza immediata della lotta di classe. Deve essere portata nella classe “dall’esterno” da parte di un’organizzazione militante fondata su un programma rivoluzionario e provvista della memoria storica del movimento proletario.
Naturalmente, dire che la coscienza spontanea della classe lavoratrice è di tipo tradunionista (“la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge necessaria agli operai, ecc.”, come Lenin scrive nel Che fare?) non significa affatto sostenere che la dinamica spontanea della lotta di classe non possa travalicare, in condizioni particolari, il livello tradunionista. Le crisi prerivoluzionarie o apertamente rivoluzionarie, ciclicamente ricorrenti e sempre possibili, non nascono infatti dalla coscienza soggettiva, ma dalla combinazione oggettiva e imprevedibile di mille fattori (incapacità delle classi dominanti di preservare le forme tradizionali del proprio dominio, volontà delle masse a reagire con la lotta al peggioramento della propria condizione materiale, divisione e polarizzazione delle classi medie, etc., secondo la stessa generalizzazione teorica di Lenin). Tuttavia, quando il livello dello scontro travalica il livello spontaneo della coscienza, e al tempo stesso manca un partito che sappia elevare tale coscienza all’altezza di un progetto rivoluzionario, anche il movimento di massa più radicale è destinato alla sconfitta. Perché altri partiti (socialdemocratici, stalinisti, nazionalisti, populisti, etc.) fanno leva ogni volta sulle mille pieghe della coscienza arretrata della massa (spontaneamente tradunionista) per subordinarla in vari modi all’ordine costituito. È ciò che avviene peraltro nella normale quotidianità della lotta di classe.
Portare la coscienza socialista nella classe significa forse ridurre la politica rivoluzionaria a una predicazione dottrinaria (come nella tradizione bordighista)? Niente affatto. La politica rivoluzionaria deve sempre sapersi rapportare all’esperienza concreta delle masse, in tutta la sua complessità e in tutte le sue stratificazioni, contraddizioni o evoluzioni. La propaganda o l’agitazione del programma delle rivendicazioni transitorie, la tattica del fronte unico verso i partiti riformisti, l’uso rivoluzionario delle tribune elettorali borghesi (quando possibile), la battaglia rivoluzionaria all’interno dei sindacati, a partire dai sindacati di massa, sono tutte forme di relazione viva con la coscienza dei lavoratori al fine di elevarla al di sopra del suo livello spontaneo. Come lo è la battaglia per l’egemonia proletaria e anticapitalista all’interno di tutti i movimenti progressivi non direttamente proletari (di genere, ambientalisti, antirazzisti, antimperialisti, etc.).
Da ogni versante, portare la coscienza socialista tra gli oppressi, al di sopra del livello tradunionista, è il contenuto di fondo di tutta la politica rivoluzionaria. Si tratta di una concezione elementare che Lenin eredita da Marx e da Engels, e su cui fonda l’impianto stesso del bolscevismo. Peraltro, tutta l’esperienza storica del movimento operaio, e tanto più l’attuale arretramento della coscienza politica del proletariato nel mondo (su cui torneremo), hanno confermato pienamente la tesi leninista, sebbene per lo più a negativo.
Ted Grant e Alan Woods hanno contestato alla radice questa concezione, teorizzando la spontaneità della coscienza socialista della classe lavoratrice. La polemica di Alan Woods è direttamente rivolta contro il Che fare? di Lenin:
Scritto tra la fine del 1901 e l’inizio del 1902, questo lavoro era inteso come una resa dei conti definitiva con gli economisti, e aveva pertanto un taglio generale estremamente polemico. C’è indubbiamente un ricco filone di idee in questo lavoro, il quale è però seriamente indebolito da un malaugurato errore teorico. Nel polemizzare correttamente contro l’adorazione servile della “spontaneità” tipica degli economisti, Lenin si lascia cadere nell’errore opposto, esagerando un’idea corretta fino a trasformarla nel suo contrario. In particolare, egli afferma che la coscienza socialista “Poteva essere loro apportata soltanto dall’esterno […]”. (Alan Woods, Storia del bolscevismo)
Denunciata come “unilaterale ed erronea” la posizione di Lenin, Woods formula a positivo una teoria opposta:
Dall’esperienza di tutta una vita di sfruttamento e oppressione, la classe lavoratrice, a cominciare dagli strati più attivi che la guidano, acquista una coscienza socialista. Questa è precisamente la base del processo storico che portò alla nascita dei sindacati e dei potenti partiti della Seconda e della Terza internazionale […]. La lotta di classe crea inevitabilmente non solo una coscienza di classe, ma anche una coscienza socialista [corsivo presente nel testo originale, NdR]. È dovere dei marxisti far emergere quanto è già presente, dare una espressione cosciente a quello che esiste in forma inconscia o semicosciente. (Alan Woods, Storia del bolscevismo)
Questa tesi di Woods è in realtà confutata da tutta l’esperienza del movimento operaio. La Seconda Internazionale e la Terza Internazionale non furono affatto il portato della spontanea coscienza socialista della classe operaia. Furono semmai i costruttori di quella coscienza, a partire una dura battaglia politica di demarcazione: nel primo caso portando a conclusione la battaglia programmatica del Manifesto del Partito Comunista contro tutte le posizioni e teorie piccolo-borghesi proprie di altre tendenze (incluse le tendenze che si affidavano alla “coscienza spontanea”); nel secondo caso in rottura con la socialdemocrazia controrivoluzionaria (che si era appoggiata sugli “spontanei” sentimenti sciovinisti di vasti settori di classe durante la guerra imperialista). Prova ne sia che dopo la distruzione di quell’enorme patrimonio storico di coscienza socialista (per mano innanzitutto dello stalinismo), nessuna esperienza della lotta di classe l’ha spontaneamente “ricreato”. Dire a un secolo di distanza che la lotta di classe crea inevitabilmente la coscienza socialista—che i rivoluzionari dovrebbero semplicemente portare alla luce—significa contraddire non solo Lenin ma l’evidenza inconfutabile dei fatti.
Questa profonda svalutazione del senso stesso del partito rivoluzionario leninista ha tuttavia nel pensiero di Grant una precisa radice. Nel momento in cui si teorizzava e praticava l’entrismo strategico nella socialdemocrazia si doveva formulare una razionalizzazione ideologica di tale scelta. Il modo migliore di farlo era dire che la lotta di classe avrebbe risolto il problema della direzione rivoluzionaria del movimento operaio. Siccome la lotta di classe assume a riferimento i partiti di massa, era sufficiente difendere le idee marxiste dentro questi partiti, e prima o poi le masse guidate dalla propria esperienza, e dunque dalla “coscienza socialista” che da essa spontaneamente promana, si sarebbero inevitabilmente riconosciute in quelle idee.
L’apologia della spontanea “coscienza socialista” serviva a coprire una politica subalterna. Persino l’esperienza del partito bolscevico è stata ricostruita a uso e consumo di questo schema ideologico, presentandola fondamentalmente come una prolungata esperienza “entrista” sino alle soglie della Rivoluzione russa. Non è la teoria ad appoggiarsi sulla storia, ma è la storia ad essere ridisegnata secondo le esigenze della teoria.
Il rigetto della concezione leninista dei “partiti operai-borghesi”
Un secondo esempio, correlato al primo, riguarda il rifiuto da parte di Grant della concezione leninista dei partiti socialdemocratici come partiti operai-borghesi, nel nome di una loro caratterizzazione semplificata di “partiti operai” o di “partiti operai riformisti”. Non è solo una questione analitica, è anche una questione strategica.
Per Lenin e l’Internazionale Comunista dei primi quattro congressi, i partiti della socialdemocrazia (allora della Seconda Internazionale) avevano una natura di classe contraddittoria. Da un lato disponevano di una radice profonda nella classe operaia, di cui dirigevano le principali organizzazioni di massa, a partire dai sindacati. Dall’altro erano dominati da un apparato burocratico conservatore della società borghese, una vera “agenzia della borghesia” all’interno del movimento operaio. Il compito dei partiti comunisti era quello di smascherare la natura borghese degli apparati socialdemocratici presso la base di massa che questi controllavano, per distruggere la loro influenza nel movimento operaio e conquistare al suo interno una egemonia alternativa. Da qui la combinazione della denuncia politica con l’articolazione della tattica (la tattica del fronte unico e del governo operaio) ai fini della conquista della maggioranza del proletariato. La tattica era subordinata alla strategia. La proposta del fronte unico era finalizzata ad avvicinare i comunisti alla base di massa della socialdemocrazia per strapparla alle sue direzioni. Lo stesso per la tattica del governo operaio: una proposta-sfida alle direzioni del movimento operaio perché rompessero con la borghesia sulla base di un programma di rottura anticapitalista, con l’obiettivo di smascherare la loro natura di agenzie della borghesia nel movimento operaio. Il Programma di Transizione di Trotsky recuperò e aggiornò questa impostazione estendendola ai partiti stalinisti. La politica bolscevica verso i partiti riformisti nel corso della Rivoluzione russa fu assunta al riguardo come paradigma di riferimento.
Ted Grant revisionò tale impostazione nelle sue fondamenta. L’entrismo strategico nella socialdemocrazia, a partire dal Labour Party inglese (ma anche nei partiti stalinisti), lo portò ad abbellire la loro natura. Il loro lato borghese venne rimosso, rimase solo il loro lato operaio. I partiti socialdemocratici e staliniani cessavano di essere una agenzia della borghesia nel movimento operaio per diventare semplicemente una espressione riformista del movimento operaio. Il compito dei comunisti non era più quello di distruggere la loro influenza borghese nella classe lavoratrice, ma di conservare al loro interno lo spazio delle idee marxiste. Il “governo dei partiti operai”, in quanto tale un governo borghese, fu trasformato ripetutamente in obiettivo e rivendicato come avanzamento del movimento operaio. Ad esempio, come vedremo più avanti, la rivendicazione del governo PDS-PRC fu centrale nella propaganda di FalceMartello in Italia negli anni ‘90 e 2000. La stessa possibile evoluzione di un partito socialdemocratico in un partito borghese tout court (come nel caso dei DS italiani) fu negata nel nome della natura operaia della socialdemocrazia.
Anche in questo caso la rimozione dell’elemento borghese nella costituzione materiale della socialdemocrazia e dei partiti stalinisti si accompagnava regolarmente a previsioni apologetiche circa la forza spontanea delle masse e della loro coscienza. Una forza che avrebbe travolto gli apparati, in particolare nell’Occidente avanzato:
Poniamo la possibilità che in un paese come l’Italia o la Francia, dove il proletariato rafforzato dallo sviluppo industriale ha un ruolo di importanza schiacciante, gli stalinisti, sotto l’influenza dell’ondata rivoluzionaria, si trovino spinti al potere, il che in teoria non è da escludersi. È vero che attualmente entrambi i partiti sono difensori di seconda linea dello Stato borghese, ma, sotto l’impatto del movimento, potrebbero far vedere il loro volto di sinistra. Se fossero spinti a prendere il potere, questo potrebbe accadere solo in base alla mobilitazione di tutte le risorse, dell’energia rivoluzionaria e della capacità organizzativa e di lotta del proletariato. Tale proletariato non permetterebbe lo sviluppo della burocrazia, come è successo nei paesi arretrati […]. Il mutamento nella coscienza delle masse si manifesterà nei partiti comunisti di massa, particolarmente in Francia e in Italia. Mai più la base di questi partiti accetterà senza grandi movimenti di protesta tradimenti come quelli del 1936 in Francia e Spagna e del 1944-47 in Francia e in Italia. (Ted Grant, La rivoluzione coloniale e la rottura tra Cina e URSS, 1964)
Sarebbe facile osservare che l’intero ordine di queste previsioni sarebbe stato smentito impietosamente pochi anni dopo proprio nei paesi indicati. Ma quello che in questa sede è importante rilevare è la rimozione teorica da parte di Grant della natura controrivoluzionaria organica dei partiti stalinisti quali strumenti di controllo burocratico delle masse per conto della borghesia. Sino ad un sostanziale capovolgimento della relazione tra le masse e i loro apparati. Un capovolgimento del leninismo e del trotskismo.
La teoria della transizione pacifica al socialismo
Un terzo esempio di adattamento politico riguarda la teoria grantista della transizione pacifica dal capitalismo al socialismo. È la forma più grave di revisione del trotskismo, perché investe il tema stesso della rivoluzione. È il segno più clamoroso delle pressioni della socialdemocrazia e del suo ambiente.
Marx ed Engels affermavano proprio a conclusione del Manifesto del Partito Comunista che il fine dichiarato dei comunisti è il rovesciamento violento dell’ordine borghese. Engels ribadì sino alla fine dei suoi giorni l’inevitabilità della rottura rivoluzionaria contro le distorsioni pacifiste che andavano emergendo nella socialdemocrazia tedesca. Lenin affermò in Stato e rivoluzione, scritto nel pieno della Rivoluzione russa, che:
La necessità di educare sistematicamente le masse in questa—e precisamente in questa—idea della rivoluzione violenta, è alla base di tutta la dottrina di Marx e di Engels. (Lenin, Stato e rivoluzione)
Trotsky recuperò e sviluppò questo bagaglio del marxismo rivoluzionario contro ogni forma di pacifismo piccolo-borghese. Valgano le pagine della sua Storia della rivoluzione russa dedicate alla preparazione dell’insurrezione (L’arte dell’insurrezione), oppure il bilancio del fallimento della rivoluzione tedesca del 1923 in Lezioni dell’Ottobre: dove Trotsky segnala la scarsa attenzione al tema dell’insurrezione come uno dei lasciti peggiori della vecchia scuola della Seconda Internazionale. Peraltro, tutta l’esperienza storica del movimento operaio internazionale nel secolo successivo ha confermato, per lo più a negativo, la centralità strategica di questo tema.
La scuola di Ted Grant e Alan Woods ha operato in senso opposto. Tutta la sua elaborazione si concentra sul concetto della transizione pacifica. Grant e Woods non contestano, bontà loro, la necessità di rompere l’apparato borghese dello Stato borghese e di rimpiazzarlo col potere dei consigli. Semplicemente presentano tale rottura come sbocco di una pacifica azione di massa, capace di evitare l’insurrezione.
Il testo di Alan Woods Marxism and the State è interamente dedicato a questo concetto. Nello sforzo di legittimare le proprie posizioni, Woods revisiona in chiave pacifista le posizioni di Marx, Engels, Lenin, Trotsky. Persino la famosa introduzione di Engels al testo di Marx su Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 viene ripescata per testimoniare la presunta evoluzione pacifista delle posizioni di Engels, così come la stessa citazione falsificante che a suo tempo ne fecero i vertici della socialdemocrazia tedesca e contro cui lo stesso Engels protestò. Di più. Woods ricostruisce in chiave “pacifista” la storia delle rivoluzioni del ‘900. La stessa Rivoluzione russa viene rappresentata incredibilmente come “rivoluzione pacifica”, trascurando il dettaglio di due insurrezioni (febbraio ed ottobre) sullo sfondo della guerra imperialista, e tutta la splendida ricostruzione storica di Trotsky circa il rapporto tra rivoluzione e insurrezione nella sua Storia della rivoluzione russa. In cui Trotsky spiega che certamente la Rivoluzione russa fu un processo complesso che non si può ridurre all’insurrezione, ma che senza l’organizzazione meticolosa dell’insurrezione (incluso il suo aspetto cospirativo) non avrebbe potuto essere coronata da successo.
Il testo di Woods indugia a lungo su tutte le pieghe dell’articolazione tattica della politica bolscevica nel 1917, dalla sfida rivolta a menscevichi e rivoluzionari perché prendessero il potere sino alla presentazione dell’Ottobre come difesa “legale” del Congresso dei Soviet. Lo scopo è dimostrare la postura pacifica del bolscevismo. Ma in realtà tutte le articolazioni tattiche, importanti e preziose, della politica bolscevica avevano come fine la conquista delle masse alla rivoluzione, incluso il suo sbocco insurrezionale. Se questo valeva in un paese già segnato dall’insurrezione di febbraio, dalla disarticolazione del vecchio apparato statale che quella insurrezione aveva già determinato, dalla presenza dei soviet e delle Guardie Rosse in armi, a maggior ragione varrà in scenari rivoluzionari meno favorevoli e avanzati.
Woods insiste sull’esperienza delle crisi rivoluzionarie del dopoguerra in Europa per dimostrare le loro potenzialità pacifiche. In particolare, indica le crisi rivoluzionarie del Maggio 1968 in Francia e del Portogallo del 1974–1975 come prove esemplari di una possibile transizione indolore. Ma nel primo caso rimuove i preparativi militari di De Gaulle presso le truppe francesi stanziate in Germania per intervenire contro la rivoluzione. Nel secondo caso ignora il ruolo decisivo in senso controrivoluzionario giocato in ultima istanza dalle gerarchie militari, tanto più significativo nel quadro della disarticolazione dell’esercito portoghese, per effetto del crollo del vecchio regime e dell’ascesa rivoluzionaria. Il concetto centrale di Woods è che le direzioni maggioritarie del movimento operaio avrebbero potuto prendere il potere pacificamente. In realtà rifiutarono di prendere il potere proprio per evitare il confronto inevitabile con lo Stato borghese e la sua forza. E lo evitarono per la propria natura di agenzia controrivoluzionaria della borghesia all’interno del movimento operaio. Esattamente il concetto leninista che Grant e Woods hanno rimosso.
Peraltro è significativo che dall’ampia panoramica (distorta) delle rivoluzioni reali del ‘900 Woods abbia sminuito l’esperienza della rivoluzione tedesca del 1918–1919 e ignorato la crisi rivoluzionaria in Cile (1970–1973): la prima repressa nel sangue dal “governo dei partiti operai” (quello di Noske e di Scheidemann) e dai suoi Freikorps, la seconda risolta dal famigerato golpe fascista di Pinochet, dopo che il movimento operaio era stato disarmato materialmente e politicamente dalle predicazioni sulla “transizione pacifica” al socialismo.
In compenso Woods indica come prova di una possibile transizione pacifica il crollo delle burocrazie staliniste dell’Est europeo dopo la caduta del Muro di Berlino sotto la pressione delle masse. Ma in quel caso si trattò di una pacifica controrivoluzione borghese per mano di una casta parassitaria che si convertì in nuova classe proprietaria, mutando la natura sociale del proprio dominio ma per molti aspetti in continuità con questo (possibilità che Trotsky aveva previsto già nel 1936). Quale analogia è mai possibile con la dinamica di una rivoluzione socialista che deve rompere l’apparato borghese dello Stato borghese scontrandosi inevitabilmente con la sua resistenza?
Alan Woods aggiunge che le rivoluzioni dell’epoca attuale, quantomeno nei paesi imperialisti, possono essere ancor più pacifiche che in passato in ragione del maggior peso strutturale del movimento operaio:
La situazione è differente rispetto al periodo fra le due guerre mondiali. Allora i fascisti tenevano riserve sociali massicce tra i contadini e nella piccola borghesia, inclusi gli studenti. Oggi tutto è cambiato. La classe operaia è mille volte più forte, la massa contadina è quasi scomparsa e settori importanti di “colletti bianchi”—insegnanti, funzionari, lavoratori del settore bancario, etc.—si sono avvicinati molto al proletariato. In queste condizioni la borghesia ci penserà due volte prima di muoversi in direzione di una aperta dittatura. (Alan Woods, Marxism and the State, nostra traduzione)
È una rappresentazione molto semplificata e unilaterale. Combina la giusta comprensione della proletarizzazione con la rimozione non solo dell’arretramento storico della coscienza proletaria (su cui torneremo), ma anche del potenziale reazionario che si concentra in vasti settori della provincia arretrata. Il trumpismo e il bolsonarismo non ne sono forse un esempio illuminante?
Più in generale Woods capovolge esattamente il senso di fondo della riflessione di Trotsky sul parallelo tra Rivoluzione russa e rivoluzione in Occidente. Una dittatura rivoluzionaria nell’Occidente progredito, affermò Trotsky più volte, potrà certo disporre di uno spazio di manovra più ampio in ragione di risorse economiche incomparabilmente superiori. In compenso la conquista rivoluzionaria del potere sarà assai più difficile che in Russia a fronte di uno Stato borghese infinitamente più robusto e sperimentato:
Molto fa credere che nei paesi dell’Europa centrale e occidentale la conquista del potere costerà molta più fatica […]. A maggior ragione questa previsione fondamentale e secondo me incontestabile – secondo cui in Europa e in America il processo della conquista del potere urterà contro una resistenza delle classi dominanti molto più seria, tenace e superiore di quella da noi incontrata – ci impegna a considerare come un’arte l’insurrezione armata e la guerra civile in generale. (Trotsky, Lezioni dell’Ottobre, 1924)
È l’esatto opposto della visione semi-pacifista di Alan Woods. La verità è che una politica rivoluzionaria deve educare il movimento operaio, e prima di tutto la sua avanguardia, alla comprensione dell’inevitabilità dello scontro con la reazione. È solo preparandosi all’inevitabilità dello scontro, contro tutte le illusioni pacifiste sulla possibilità di evitarlo, che il movimento operaio e la sua avanguardia potranno ridurre a proprio vantaggio i costi della rivoluzione. Chi predica contro la necessità della violenza si prepara semplicemente a subirla, come mostra tanta parte della storia reale delle rivoluzioni.
È importante comprendere il filo conduttore che unisce nel pensiero di Grant e di Woods questi diversi aspetti della revisione del trotskismo. Il filo non sta nel cielo della teoria ma nell’adattamento politico alla pressione d’ambiente e nella logica autoconservativa della propria organizzazione. Tutta la polemica furiosa contro le cosiddette “sette” serve solo a tutelare la propria.
La capitolazione della TMI al chavismo
La tutela della propria organizzazione come fine dell’azione politica ha bisogno di miti con cui nutrirsi. La cosiddetta “rivoluzione bolivariana” ha rappresentato per oltre dieci anni uno di questi miti. Per oltre dieci anni Grant e Woods hanno fatto dell’apologia del chavismo, contro i “pregiudizi” delle “sette”, il principale elemento di riconoscibilità pubblica della propria organizzazione internazionale. Potremmo dire che tutte le distorsioni centriste del trotskismo proprie della scuola di Grant e di Woods hanno trovato una espressione concentrata in Venezuela. La raccolta degli scritti di Alan Woods sotto il titolo de La revolución bolivariana—Un análisis marxista offre al riguardo una documentazione riassuntiva inequivocabile.
Nella sua realtà, che è cosa diversa dal mito, il chavismo ha rappresentato una variante di bonapartismo nazionalista dalla postura antimperialista, non nuovo nella tradizione storica latino-americana. Basti pensare al regime di Cárdenas in Messico alla fine degli anni ‘30, caratterizzato da Trotsky come “bonapartismo sui generis”, o al fenomeno peronista nell’Argentina del dopoguerra. Facendo leva su un settore di ufficiali intermedi dell’esercito venezuelano, Hugo Chávez ascese al potere alla fine degli anni ‘90 beneficiando della domanda di svolta della grande maggioranza della popolazione povera del paese. Una domanda già espressasi nel 1989 con una sollevazione rivoluzionaria repressa nel sangue (il Caracazo). Nel 2002 il tentativo golpista di disarcionare Chávez, clamorosamente fallito, favorì un’ampia reazione popolare a suo sostegno, con elementi di indubbia radicalizzazione. Chávez lavorò a irregimentare il sostegno popolare incorporando le organizzazioni di massa nel proprio partito (prima Movimento Quinta Repubblica, poi Partito Socialista Unito del Venezuela), subordinando i sindacati al proprio governo, elevandosi al di sopra delle classi.
Nacque così un regime bonapartista piccolo-borghese, nel quadro di uno Stato borghese. Grazie alle fortune crescenti della rendita petrolifera, Chávez sviluppò una politica redistributiva in direzione della popolazione povera (in particolare nel campo della sanità, dell’istruzione, delle abitazioni, dei sussidi) consolidando il suo appoggio. Fu la politica della cosiddette misiones. Ma al contempo limitò i diritti sindacali, impose una legislazione antisciopero nel settore pubblico, ricorse ripetutamente alla repressione diretta di lotte operaie attraverso l’uso della Policía Nacional, e soprattutto evitò ogni politica di rottura con la borghesia e con l’imperialismo.
Persino sul terreno strettamente democratico e “antimperialista” il suo progressismo fu assai moderato, anche dopo il fallito golpe del 2002. La riforma agraria lasciò nelle mani del 5% dei grandi proprietari il 75% della terra. Le nazionalizzazioni delle proprietà straniere furono limitatissime e super indennizzate. Il debito estero col capitale straniero continuò ad essere onorato sino all’ultimo centesimo. Le banche restarono nelle mani private (prevalentemente spagnole) al pari delle telecomunicazioni (di proprietà nordamericana). La borghesia nazionale fu integralmente risparmiata, a partire dai grandi gruppi del settore alimentare. Mentre l’intermediazione tra governo, capitale privato e commercio estero favorì lo sviluppo di una nuova borghesia di arricchiti (la “boliborghesia”) a sostegno del regime. La casta militare fu parte centrale di questo ambiente.
Senza alcun dubbio il governo borghese di fronte popolare di Salvador Allende nel Cile dei primissimi anni ‘70 si era mostrato infinitamente più radicale del governo Chávez su ognuno di questi terreni. Come peraltro lo era stato, su un piano diverso, persino il peronismo argentino. La verità è che la tenuta di Chávez sul fronte sociale era unicamente affidata al prezzo del petrolio e ai margini redistributivi che questo consentiva. Quando il prezzo del petrolio crollò con la grande crisi capitalistica internazionale del 2008, la fortuna del chavismo declinò. Il regime di Maduro, erede diretto di Chávez e del suo sistema di potere, reagirà al declino ampliando ulteriormente le misure di apertura alla borghesia e al capitale straniero.
Una politica elementare da un punto di vista marxista era ed è quella di difendere l’indipendenza politica della classe operaia dal regime chavista. Appoggiando naturalmente ogni misura progressiva, difendendo incondizionatamente il Venezuela da ogni minaccia reazionaria dell’imperialismo, ma denunciando la politica di collaborazione del chavismo con la borghesia (e l’imperialismo stesso), la sua timidezza rinunciataria sullo stesso terreno democratico, le politiche di attacco al proletariato. In altre parole, collocandosi all’opposizione del bonapartismo piccolo-borghese da un versante di classe, e sviluppando da quel versante la relazione attiva col movimento di massa sul terreno di un programma e di una prospettiva anticapitalista. La politica che già Marx indicava alla Lega dei Comunisti nel 1850 a fronte di un eventuale governo della democrazia piccolo-borghese in Germania. La politica che Lenin e l’Internazionale Comunista indicavano ai comunisti nei paesi coloniali e semicoloniali: dove anche un eventuale fronte comune antimperialista con i movimenti nazionalisti piccolo-borghesi richiedeva l’esplicito rifiuto di avallare ogni loro falsa retorica “socialista” e la difesa dell’indipendenza del proletariato.
Grant e Woods fecero una politica opposta. Magnificarono la retorica “antimperialista” di Chávez. Accreditarono la sua interessata demagogia “socialista”, totalmente priva di ogni riscontro reale. Presentarono le sue misure (definite “impressionanti”) come l’inizio della rivoluzione socialista in Venezuela. Esaltarono oltre ogni limite la stessa figura personale del comandante in capo, con toni lirici e imbarazzanti:
Dai miei limitati contatti con Hugo Chávez, sono fermamente convinto della sua onestà personale, del suo coraggio e della sua dedizione alla causa delle masse, degli oppressi e degli sfruttati […]. Nemmeno i suoi nemici dichiarati o i suoi critici possono negare che abbia dimostrato un coraggio colossale […] Per la prima volta nei quasi duecento anni di storia del Venezuela, le masse sentono che il governo è nelle mani di persone che vogliono difendere i loro interessi […]. L’elenco delle conquiste della rivoluzione è impressionante […]. Hugo Chávez ha dato per la prima volta voce e speranza ai poveri e agli oppressi […]. Questo è il segreto della loro straordinaria devozione e fedeltà a lui […]. Originariamente [Chávez e i suoi seguaci, NdR] non avevano una prospettiva socialista, ma solo l’idea di porre fine alla corruzione e di modernizzare il Venezuela. Volevano una società più giusta ed egualitaria, ma immaginavano che fosse possibile realizzarla senza infrangere i limiti del capitalismo, il che li portò immediatamente in conflitto con la borghesia e l’imperialismo. Le masse sono scese in piazza e hanno dato al processo una dinamica totalmente diversa. Il movimento di massa ha dato una spinta a Chávez che a sua volta ha spinto il movimento in una direzione rivoluzionaria […]. Il presidente Hugo Chávez ha sempre dimostrato un istinto rivoluzionario infallibile. (Alan Woods, La revolución bolivariana—Un análisis marxista, nostra traduzione)
In altre parole, lo spartito della transizione pacifica al socialismo avrebbe trovato in Chávez il suo interprete d’eccezione. In questo quadro il compito dei marxisti secondo Woods era quello di lavorare nel movimento bolivariano in appoggio alla sua guida “rivoluzionaria” per fornirgli le idee marxiste di cui era privo. Gli incontri di Alan Woods con Hugo Chávez (che Woods esibisce con compiacimento) avevano questa finalità dichiarata: fornire a Chávez letture marxiste, soprattutto letture di Alan Woods. Peraltro, lo stesso Woods assicurava che Chávez “era sinceramente interessato alle idee del marxismo e desideroso di conoscerle”. L’interesse di Chávez a coprirsi a sinistra sfruttando (anche) l’approccio cortigiano di Woods veniva rappresentato come prova dell’influenza di Alan Woods su Chávez. Dunque, dell’influenza del marxismo sulla rivoluzione bolivariana. Dal canto suo Woods ripagò le attenzioni di Chávez attaccando frontalmente chi da sinistra ne contestava la politica:
Il maggior pericolo per i marxisti venezuelani è l’impazienza, il settarismo, l’ultrasinistrismo […]. La frustrazione sta crescendo fra gli attivisti. Questo è il pericolo. Questa frustrazione può condurre all’impazienza e ad avventure ultrasinistre da parte di un settore di attivisti che si allontana dal resto della classe. Questo può avere conseguenze negative per la rivoluzione. (Alan Woods, La revolución bolivariana—Un análisis marxista, nostra traduzione)
Invece di dare una traduzione politica indipendente all’insoddisfazione crescente di settori classisti di avanguardia, interni ed esterni al movimento bolivariano, la politica di Woods li assumeva a bersaglio polemico per tutelare Chávez.
Questa posizione di capitolazione al chavismo fu estremamente grave anche per la sua valenza internazionale. Chávez era non a caso uno dei riferimenti più celebrati della sinistra riformista cosiddetta radicale in Europa (in Italia Bertinotti, Cossutta, Rizzo), e delle direzioni piccolo-borghesi neoriformiste del movimento mondiale No Global. Chávez fu l’ospite venerato del Forum sociale mondiale di Porto Alegre del gennaio 2005 dove riuscì a passare per “rivoluzionario” nel mentre lodava i governi borghesi di Lula e di Kirchner, e vantava le proprie relazioni con Putin. La corrente di Woods si aggregò di fatto a questa carovana di adulatori. Naturalmente in nome… del “marxismo”.
Ciò che oggi colpisce è l’assoluta mancanza di ogni bilancio da parte della TMI di una posizione sostenuta per dieci anni. Il Venezuela sembra improvvisamente scomparso dalla cartina geografica della TMI. Un silenzio significativo e imbarazzante.
Rivoluzione coloniale e bonapartismo proletario
Lo stesso mancato bilancio investe altre clamorose posizioni della TMI nell’arco della sua storia. Ad esempio sulle rivoluzioni coloniali.
È il caso della teoria del cosiddetto “bonapartismo proletario”. Si trattò dell’estensione arbitraria da parte di Grant della categoria trotskista dello Stato operaio deformato. Trotsky nel Programma di Transizione aveva considerato la possibilità che partiti piccolo-borghesi, staliniani inclusi, in condizioni eccezionali, andassero al di là delle proprie intenzioni sul terreno della rottura con la borghesia. È quanto avvenuto nel secondo dopoguerra in alcuni paesi coloniali e arretrati, come nel caso della Cina, di Cuba, del Vietnam. Quando processi rivoluzionari, a base prevalentemente contadina, portarono al potere partiti stalinisti o nazionalisti che finirono con l’espropriare la borghesia dando vita a rapporti di proprietà fondati sull’economia pianificata. In uno scenario mondiale segnato dalla presenza dell’URSS, dall’espansione internazionale dello stalinismo, dalla crisi o marginalità del marxismo rivoluzionario, formazioni piccolo-borghesi e/o staliniste presero la testa di rivoluzioni coloniali antimperialiste, saldando i compiti naturali della rivoluzione democratica con la distruzione del vecchio apparato statale e la trasformazione socialista dei rapporti di proprietà. Fu l’espressione deformata della rivoluzione permanente. La capitolazione delle tendenze pabliste del movimento trotskista ai regimi burocratici che ne nacquero fu una manifestazione della revisione centrista del trotskismo.
Grant colse la natura degli Stati operai deformati. Non capitolò come i pablisti ai loro regimi. Ma tese ad estendere tale categoria a molti rivolgimenti nazionalisti piccolo-borghesi di impronta bonapartista. L’Egitto di Nasser (1952), l’Iraq di Qasim (1958), la Siria del Baath (1963), l’Algeria di Boumédiène (1965), l’Etiopia di Menghistu (1978), persino la Birmania buddista (1962), furono caratterizzati o previsti da Grant come Stati operai deformati. In realtà si trattò di regimi nazionalisti nati da colpi di Stato militari, nel quadro dell’apparato statale borghese, diretti da leadership piccolo-borghesi in uniforme, che realizzarono sicuramente misure democratiche avanzate nel campo della riforma agraria o nel rapporto con l’imperialismo (incomparabilmente più avanzate di quelle realizzate dal chavismo venezuelano), cercarono e ottennero l’appoggio dell’URSS (o della Cina nel caso birmano), ma senza rompere strutturalmente col capitalismo. Senza soluzione cubana o cinese. Si trattò di regimi piccolo-borghesi a “capitalismo di Stato”, che si equilibrarono nei rapporti internazionali dell’epoca. Dopo il crollo dell’URSS il loro spazio di manovra si dissolse, e rifluirono in normali Stati dipendenti, subalterni all’imperialismo.
Grant fece invece di questo fenomeno la categoria di “bonapartismo proletario”, che tese ad accomunare sotto le proprie ali indistintamente tutti i regimi piccolo-borghesi “antimperialisti”. Una categoria con cui individuò la generale linea oggettiva di tendenza delle rivoluzioni coloniali in Asia e in Africa quale riflesso inevitabile del ritardo della rivoluzione in Occidente (ciò che tendeva a rimuovere il programma della rivoluzione permanente come programma soggettivo dei marxisti rivoluzionari nei paesi arretrati). Persino la rivoluzione portoghese del 1975 fu inquadrata in questo schema teorico prevedendo tendenzialmente in Portogallo uno Stato operaio deformato sotto la guida del MFA. Anche se in questo caso Grant affermò che tale esito sarebbe stato impedito dalla “rivoluzione che si avvicina in Spagna e dalle ripercussioni che questa avrà nell’Europa e nel mondo” (Ted Grant, La rivoluzione portoghese, 1975). L’ennesima previsione euforica smentita.
Su tutta questa materia la TMI non ha mai sentito il bisogno di trarre un bilancio o di fare rettifiche. Gli scritti di Grant al riguardo sono stati ripubblicati in pompa magna (Il lungo filo rosso—Scritti scelti 1942-2002, 2007) senza una riga di commento. È la celebrazione dell’infallibilità del vate.
Questione nazionale. Palestina, Irlanda… Padania
Un secondo tema sensibile riguarda la questione delle nazionalità oppresse. La questione nazionale ha costituito per lungo tempo un terreno di caratterizzazione della TMI. Un lungo saggio di Alan Woods e Ted Grant del 2000, ripubblicato da Sinistra Classe Rivoluzione (SCR) nel 2015, rivendica integralmente al riguardo cinquant’anni di storia della propria corrente sull’argomento, naturalmente in contrapposizione alle “sette”:
A questi critici diciamo solo questo: siamo orgogliosi del fatto che solo la tendenza marxista rappresentata dal Socialist Appeal [sezione inglese della TMI, NdR] e da In Defence of Marxism [rivista teorica della TMI, NdR], non abbia perso la testa e abbia difeso la classica posizione del marxismo, su questa come su molte altre questioni. Il nostro materiale parla da solo. Non ci vergogneremmo nel ripubblicare oggi nessuno dei nostri materiali degli ultimi 50 anni. Quelli che pretendono di parlare a nome di Lenin su questa questione semplicemente mostrano la loro ignoranza della posizione del partito bolscevico sulla questione nazionale. Lo scopo di questo documento è di rimettere le cose al loro posto. Naturalmente, non è indirizzato alle sette, che sono incapaci di imparare alcunché. (Alan Woods—Ted Grant, Il marxismo e la questione nazionale)
Lo prendiamo in parola. L’intero testo di Woods e Grant, al netto di molti richiami scolastici, si concentra sul tema del diritto di autodeterminazione delle nazioni oppresse. L’idea di fondo è quella per cui i marxisti, in quanto internazionalisti, non debbono mai capitolare al nazionalismo, neppure a quello dei popoli oppressi. Il concetto naturalmente è giusto. Ma solo se si combina col rifiuto di ogni capitolazione o adattamento al nazionalismo imperialista e/o coloniale. Purtroppo, è proprio il caso della TMI.
Prendiamo la questione cruciale della Palestina. Il testo di Woods e Grant insiste a lungo sulla corretta critica delle direzioni nazionaliste palestinesi degli anni ‘80 e ‘90. Ma subordina il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese al riconoscimento dello Stato coloniale di Israele:
Tuttavia, oggi lo Stato di Israele esiste e non si può far tornare indietro le lancette dell’orologio. Israele è una nazione, e non possiamo fare appello alla sua abolizione. (Alan Woods—Ted Grant, Il marxismo e la questione nazionale)
Una clamorosa capitolazione al sionismo, e all’imperialismo che lo sorregge. Una posizione che rinnega l’impostazione storica della Quarta Internazionale delle origini sulla liberazione della Palestina. Oggi fortunatamente la posizione internazionale della TMI sembra cambiata, coincidendo sostanzialmente con la nostra (per una Palestina unita, laica, socialista, con diritti nazionali per la minoranza ebraica, entro una Federazione socialista del Medio Oriente). Ma domani? Senza un bilancio motivato e razionalizzato delle proprie posizioni e dei loro cambiamenti si rischia di oscillare empiricamente tra una posizione e il suo opposto. È il pendolo del centrismo.
Un problema si pone anche sulla questione nazionale irlandese, che più di altre ha coinvolto per ovvie ragioni l’organizzazione britannica della TMI (o, prima del 1992, del CWI, organizzazione di provenienza della TMI). Dietro una retorica internazionalista e classista il CWI giunse ad eguagliare gli attivisti dell’IRA alle forze paramilitari lealiste. Da qui, a partire dagli anni ‘70, il rifiuto della rivendicazione elementare del ritiro delle truppe d’occupazione britanniche dall’Irlanda del Nord nel nome della pace tra cattolici e protestanti. Il documento del 2000, ripubblicato nel 2015, ripropone inalterata la posizione:
Le lezioni della Jugoslavia sono una terribile conferma di questo. Precisamente per questa ragione, non c’era e non c’è motivo per cui Londra ritiri le sue truppe dal Nord […]. Il problema è però che un ritiro provocherebbe un caos sanguinoso che ricadrebbe sul resto del Regno Unito. Questo scenario da incubo Londra non può permetterselo, e quindi sono condannati a rimanere. (Alan Woods—Ted Grant, Il marxismo e la questione nazionale)
Qui non si tratta della critica alle direzioni nazionaliste piccolo-borghesi del movimento nazionalista irlandese, ma dell’adattamento all’imperialismo britannico. Lo stesso che il CWI manifestò nel 1982 durante il governo della signora Thatcher, quando la Gran Bretagna attaccò militarmente l’Argentina nella Guerra delle Malvinas, rifiutando di difendere l’Argentina contro il proprio imperialismo nel nome di una posizione di disfattismo bilaterale e della richiesta del tutto astratta di una “guerra socialista” contro l’Argentina. In realtà queste posizioni opportuniste verso il proprio imperialismo, in particolare sulla questione irlandese, riflettevano un adattamento al senso diffuso dei lavoratori britannici e alle pressioni del Labour Party nel quale la sezione britannica operava. Ma spiegare le ragioni di una posizione non significa rimuoverne la gravità. Tanto più se vengono retrospettivamente rivendicate in toto.
Peraltro, l’adattamento a umori reazionari del proprio proletariato non è solo una caratteristica della sezione britannica. Lo riprova la posizione della sezione italiana della TMI negli anni ‘90 attorno alla rivendicazione della Lega Nord di un referendum sulla Padania. La Lega di Bossi rivendicava all’epoca la secessione del Nord nel nome degli interessi di una piccola e media borghesia reazionaria settentrionale che voleva mani libere per i propri affari antioperai. Si trattava da ogni punto di vista di un secessionismo reazionario contro cui mobilitare unitariamente il movimento operaio e sindacale. Invece la posizione di FalceMartello, antesignana dell’attuale SCR, fu esattamente opposta:
Il movimento operaio ha tutto l’interesse a fare sì che la volontà di qualsiasi popolazione che si sente oppressa dallo stato italiano possa esprimersi liberamente attraverso il referendum o con altri canali. Di più, il movimento operaio non dovrebbe opporsi a una simile consultazione, ma dichiararsi disposto a mobilitarsi affinché ne vengano rispettati i risultati, sia che si tratti di una richiesta di maggiore autonomia in campo culturale o economico, sia che si tratti di un vero e proprio referendum sulla secessione. (FalceMartello, I padroni usano i nazionalismi per dividere i lavoratori! Come convincere un lavoratore leghista?, settembre 1997)
Incredibile. La stessa organizzazione che mette in discussione il diritto di autodeterminazione di nazioni oppresse, nel nome della critica alle loro direzioni piccolo-borghesi, sostiene il diritto alla secessione reazionaria di una nazione inesistente inventata da un partito padronale razzista. Non c’è logica in tutto questo. Se non quella dell’adattamento agli umori leghisti di una parte significativa del proletariato settentrionale dell’epoca. La teoria della “spontanea coscienza socialista” della classe rimuoveva il contrasto dei suoi pregiudizi reazionari. Il paradosso è che parallelamente il testo citato di Woods e Grant (Il marxismo e la questione nazionale) riconosceva en passant che “la richiesta della Lega Nord in Italia di avere il diritto a scindersi per costituire uno Stato separato ha chiaramente un carattere reazionario”. Ma il fatto che abbia taciuto sulla posizione opposta della sua sezione italiana, obiettivamente abnorme, dà la misura di un empirismo disinvolto, che lascia a ogni sezione il diritto di adattarsi alle pressioni di casa propria. L’esatto opposto del rigore ideologico internazionale che la TMI rivendica.
Il nuovo mito della rivoluzione mondiale imminente
Morto un mito se ne fa un altro. A partire dal 2008, la grande crisi capitalistica internazionale ha segnato un punto di svolta della TMI e della sua narrazione. La mitologia chavista è stata rimpiazzata dalla teoria dell’imminenza della rivoluzione come effetto della catastrofe capitalista. È la tesi della radicalizzazione progressiva del proletariato mondiale e della gioventù come portato della crisi del capitale. Un impasto ideologico non nuovo nella storia del movimento operaio e dello stesso dibattito dei rivoluzionari, che rimpiazza l’analisi marxista della complessità con una schema impressionistico profondamente falso.
Innanzitutto, la TMI tende a enfatizzare oltre misura la profondità della crisi economica del capitalismo mondiale. Sicuramente la crisi del 2007-2009 ha rappresentato la crisi più profonda dell’economia capitalistica internazionale dagli anni ‘30 secondo alcuni indicatori, la peggiore dal 1982 secondo altri. Ma l’enorme sviluppo della potenza capitalistica della Cina, se ha approfondito le contraddizioni interimperialistiche portandole a un nuovo livello storico, ha anche ammortizzato sul piano economico la crisi capitalistica dell’Occidente. I dieci anni successivi hanno registrato una ripresa dell’economia mondiale. Nel 2020 il ciclone dell’epidemia Covid, incrociando l’esaurimento della ripresa economica, ha nuovamente precipitato l’economia mondiale in una recessione internazionale più concentrata ed estesa di quella del 2008 (con un calo del PIL mondiale del 3,4% a fronte del calo dell’1,3% registrato nel 2009). Ma l’enorme intervento keynesiano degli Stati e delle banche centrali, da un lato con la spesa in deficit, dall’altro con l’abbattimento dei tassi d’interesse, ha avviato rapidamente un’inversione di tendenza portando l’economia mondiale nel 2022 ai livelli precedenti la pandemia. Naturalmente la ripresa ha trascinato nuove contraddizioni, come l’espansione gigantesca del debito pubblico e l’innalzamento dell’inflazione, ciò che ha innescato a sua volta una svolta monetaria restrittiva delle banche centrali (con l’innalzamento generale dei tassi d’interesse) e di conseguenza nuove spinte alla stagnazione. Ma se guardiamo la dinamica complessiva della crisi capitalista nel suo svolgimento vediamo una curva a sinusoide, non un diagramma piatto e tanto meno una caduta verticale lineare. E soprattutto misuriamo la capacità di manovra, nonostante tutto, delle classi dominanti.
La TMI viceversa ha teorizzato una crisi catastrofica da ultima spiaggia del capitalismo. Il testo della direzione internazionale della TMI del 12–13 settembre 2020 (Il mondo sull’orlo del precipizio e la rivoluzione imminente) è al riguardo emblematico nelle sue rappresentazioni retoriche. “La Banca d’Inghilterra ha dichiarato che questa sarà la crisi più profonda degli ultimi trecento anni, ma anche questo è insufficiente. In realtà, la situazione che stiamo vivendo è unica”, mentre “l’economia ha subito una crisi molto peggiore—con una piega verso il basso molto più rapida—rispetto agli anni ‘30”. Vengono prese per buone le considerazioni dell’economista Nouriel Roubini, secondo cui “la contrazione in corso non sembra essere né a V, né a U, né a L (una brusca flessione seguita da una stagnazione). Sembra piuttosto una I: una linea verticale che rappresenta i mercati finanziari e l’economia reale in caduta libera”. E ancora: “ci stiamo dirigendo verso una profonda depressione”, le possibilità di ripresa economica sono “un’illusione”. Di conseguenza la reazione della borghesia alla pandemia è di “panico assoluto”, la sua stampa è vicina “alla disperazione”. E via dicendo.
Questa rappresentazione apocalittica non ha niente di marxista. E soprattutto niente a che vedere con la realtà. Basterebbe leggere i dati dell’economia mondiale del 2022, con una forte crescita del PIL globale, per polverizzare le previsioni della TMI. Piuttosto gli argomenti usati ricordano quelli di Bucharin sulla “crisi finale del capitalismo” (1921), oppure a un livello diverso gli argomenti analoghi del “terzo periodo” staliniano del Comintern tra il 1929 e il 1933. In entrambi i casi Trotsky li fustigò a dovere non solo nel merito, ma nel metodo. Educando i marxisti rivoluzionari a evitare ottimismi consolatori e grotteschi sulla crisi del nemico, a non confondere una crisi generale con la sua precipitazione lineare, a comprendere le straordinarie capacità di resistenza del capitalismo alle sue stesse crisi. Ciò che è decisivo per razionalizzare la complessità della politica rivoluzionaria e dei suoi compiti. Se ciò era vero dopo la rivoluzione bolscevica, a maggior ragione lo è nel contesto storico attuale.
Crisi capitalistica e radicalizzazione di massa
Ma la distorsione centrale della TMI non sta solo o principalmente nella rappresentazione catastrofistica della crisi economica del capitale, quanto nella presunta connessione tra crisi capitalistica e radicalizzazione di massa. Anche qui si sprecano toni e rappresentazioni caricaturali della realtà.
Naturalmente è indubbio che la crisi capitalistica dopo il 2008, nel suo saliscendi, ha sospinto vasti processi di polarizzazione sociale nel mondo. Tra questi anche, ripetutamente, crisi prerivoluzionarie o apertamente rivoluzionarie. Tali sono state, su piani e in forme diverse, le rivoluzioni arabe del 2010–2011, l’ascesa del movimento di massa in Grecia del 2012–2015, le ricorrenti esplosioni sociali che si sono prodotte in Cile, Ecuador, Sudan, Libano, Iraq, Algeria nel 2018–2019, la crisi rivoluzionaria in Colombia nel 2021 e in Sri Lanka nel 2022, il grande movimento di massa prevalentemente femminile in Iran nel 2022. Anche alcuni paesi imperialisti sono stati attraversati da importanti dinamiche di mobilitazione, come lo straordinario movimento Black Lives Matter negli USA, o le ripetute lotte di massa che hanno percorso la Francia dal 2018 al 2023. Non vedere le potenzialità rivoluzionarie connesse alla crisi significherebbe non vedere la realtà.
Ma vedere solo le potenzialità rivoluzionarie significa confondere la realtà con i propri desideri. La stessa crisi sociale, che in un determinato contesto politico può alimentare la radicalizzazione di massa, può in un contesto diverso sospingere dinamiche opposte. Più precisamente dinamiche reazionarie. Dinamiche reazionarie spesso sospinte o dalla sconfitta delle precedenti ascese, per responsabilità politica delle loro direzioni, o dal riflusso del movimento operaio. Così l’ultimo decennio è anche quello che ha visto la vittoria di Trump negli USA e di Bolsonaro in Brasile; la vittoria dell’arcireazionario Milei in Argentina; lo sviluppo di forti correnti populiste reazionarie nel cuore dell’Europa capitalista; l’ascesa di tendenze fondamentaliste panislamiste nel mondo arabo e in Medio Oriente; la tenuta di regimi iper-reazionari come il regime induista di Modi in India, o il regime putiniano granderusso, o il regime di Xi Jinping in Cina.
La verità è che la cifra del mondo oggi non è né la rivoluzione, né la reazione, ma il loro combinarsi e alternarsi in un quadro di accentuata instabilità politica internazionale. Proprio Trotsky, peraltro, in polemica con le visioni del “terzo periodo” staliniano, aveva chiarito che non vi è alcuna relazione meccanica fra crisi capitalista e radicalizzazione di massa:
Si parla della radicalizzazione delle masse come di un processo ininterrotto […]. Questo modo meccanico di presentare le cose non trova riscontro nel reale processo di sviluppo del proletariato e della società capitalista nel suo complesso […]. I movimenti ascendenti della lotta di classe sono sostituiti da movimenti discendenti, il flusso dal riflusso, secondo il combinarsi altamente complesso delle condizioni materiali e ideologiche interne ed esterne […]. La nostra epoca è caratterizzata da cambiamenti particolarmente brutali di periodi distinti, da svolte estremamente brusche della situazione […]. (Trotsky, Il “terzo” periodo di errori dell’Internazionale Comunista, scritto intorno al Capodanno del 1930 e pubblicato in tre puntate su La Verité, settimanale dell’Opposizione di Sinistra in Francia, tra il 24 gennaio e il 7 febbraio successivi)
La TMI tende invece a vedere il mondo solo col colore della rivoluzione. Per di più con quello della “rivoluzione imminente” come veniva sentenziato, con qualche imprudenza, nel 2020. Così, mentre cancellava dalla propria visuale i riflussi della lotta e le derive reazionarie, la TMI enfatizzava in misura grottesca i processi reali di radicalizzazione. Ad esempio, l’importantissimo movimento di massa dei BLM negli USA diventava “un movimento insurrezionale”, che inghiotte “una città americana dopo l’altra”, “una sorta prova generale della rivoluzione americana”, “una situazione rivoluzionaria in via di sviluppo”, “quasi come una guerra civile per le strade”. In Libano, la ripresa di mobilitazione, poi rifluita, del 2019, diventava “un’impennata colossale della rivoluzione, con tutti i settori della classe lavoratrice che si uniscono alla lotta”. Per l’America Latina si annunciava una esplosione rivoluzionaria direttamente incoraggiata “dagli sviluppi negli Stati Uniti”, cioè dalla rivoluzione americana in marcia. Per la Cina si prevedeva, nonostante lo schiacciamento del movimento ad Hong Kong, una imminente “esplosione della lotta di classe”. Per l’Italia (su cui torneremo) si annunciava “un’esplosione della lotta di classe come non si vedeva dagli anni ‘70”, con “serie implicazioni per tutta l’Europa”.
Per scongiurare ogni margine di dubbio questa rappresentazione enfatica è globale ed uniforme:
Ma ora vediamo movimenti rivoluzionari ovunque: dalla Francia al Libano, dalla Bielorussia alla Thailandia, dagli Stati Uniti al Cile. In altre parole, vediamo già delinearsi la rivoluzione mondiale […]. Fino a poco tempo fa, la globalizzazione è servita a spingere lo sviluppo del capitalismo a nuove altezze. Ora servirà a diffondere la rivoluzione su scala mondiale. (TMI, Il mondo sull’orlo del precipizio e la rivoluzione imminente, 2020)
Sono tutte citazioni estratte, fra le tante, non da qualche volantino agitatorio, ma dalle risoluzioni della direzione internazionale della TMI del 12–13 settembre 2020.
Sarebbe facile osservare che la “rivoluzione imminente” annunciata nel 2020 non ha trovato il conforto dei fatti. Ma il punto è il metodo. Una lettura enfatica della realtà, senza rapporto con la realtà, è la negazione del metodo marxista. Serve forse a nutrire artificialmente un immaginario entusiasta con cui alimentare e recintare la propria organizzazione. Di certo non aiuta la politica rivoluzionaria, né la credibilità del proprio riferimento al trotskismo.
Radicalizzazione di massa e coscienza rivoluzionaria
Il mito della rivoluzione imminente si sposa, nell’impostazione della TMI, con la teoria dello sviluppo parallelo della coscienza politica del proletariato. L’avanzare della rivoluzione nel mondo svilupperebbe la coscienza delle masse in senso rivoluzionario, in particolare la coscienza della gioventù. Si tratta allora di dare direzione politica e programma a questa coscienza rivoluzionaria emergente. Tutta l’attuale retorica della TMI si riassume in definitiva in questo concetto. È il punto di intersezione tra la polemica di Woods contro il Che fare? di Lenin e la nuova visione dell’ottimismo catastrofista.
Purtroppo, anche qui si rimpiazza il marxismo con uno schema ideologico che gli è estraneo. Naturalmente è vero che la crisi capitalistica a partire dal 2008 ha indebolito l’egemonia ideologica dei partiti borghesi tradizionali e delle vecchie formule di governo. L’enfatizzazione liberal-liberista degli anni ‘90 attorno alle sorti progressive del capitalismo è da tempo un lontano ricordo. L’insoddisfazione sociale delle classi subalterne si è indiscutibilmente allargata. Un senso critico verso il potere costituito e la logica del profitto si è diffuso in ampi settori proletari e popolari. Ma non è affatto detto che questa crisi delle vecchie forme ideologiche borghesi sospinga in avanti, di per sé, la coscienza politica della classe. Tanto meno che, di per sé, sospinga la coscienza in direzione della rivoluzione. Vasti settori di proletariato industriale, in particolare nei paesi imperialisti, hanno tradotto più volte la propria insoddisfazione sociale nell’adesione a suggestioni reazionarie variamente declinate (come in USA, in Francia, in Italia). Non solo non sono approdati all’anticapitalismo socialista, ma in qualche caso sono arretrati persino rispetto alla propria tradizione tradunionista: laddove la contrapposizione fra operaio e padrone è stata rimpiazzata da quella tra popolo e politici o, peggio, tra Nazione e migranti. Di converso, i processi di radicalizzazione di massa in diversi paesi hanno trovato espressione politica nella riemersione di vecchie illusioni riformiste, come in Syriza, o in Podemos, o in Sanders, la cui inevitabile delusione ha generato riflusso o addirittura ripiegamento reazionario. Il caso del Cile è paradigmatico: la grande esplosione sociale del 2019 che ha rovesciato il regime di Piñera e spianato la strada a Boric è rapidamente rifluita in poco più di un anno a vantaggio di una maggioranza di destra o di estrema destra, con chiare filiazioni pinochetiste. In altri casi, imponenti rivoluzioni di massa come quelle che rovesciarono Ben Ali e Mubarak hanno convissuto con una coscienza politica estremamente arretrata, facile preda durante il riflusso del recupero reazionario (fondamentalista o militare).
Tutta questa dinamica ci parla non solo dell’instabilità politica, ma del rapporto contraddittorio tra lotta di classe e coscienza, persino tra rivoluzione e coscienza. E soprattutto ci riporta a un dato di fondo che travalica la contingenza politica e che la TMI rimuove totalmente: l’arretramento storico della coscienza politica di classe sul piano mondiale nell’arco dell’ultimo secolo, per effetto prima della socialdemocrazia e dello stalinismo, poi del crollo a destra dell’Unione Sovietica, infine della diffusa deriva liberale dei vecchi partiti del movimento operaio. La sovrapposizione progressiva di questi fattori ha dissolto nell’immaginario della maggioranza della classe lavoratrice il riferimento al socialismo e spesso al vocabolario classista, anche nella loro versione deformata, sospingendo una regressione profonda.
Questa regressione naturalmente non impedisce affatto i possibili processi di radicalizzazione di massa e neppure le esplosioni rivoluzionarie, normalmente sospinte dal bisogno e non dalla coscienza. Ma certo misura la crisi del fattore soggettivo in tutta la sua portata. E dunque misura la necessità di rimontare questa crisi partendo dalla costruzione di partiti rivoluzionari di avanguardia mirati allo sviluppo controcorrente della coscienza. Della massa e prima di tutto della sua avanguardia.
Lo spazio storico di costruzione di tali partiti non solo esiste, ma in un certo senso si è ampliato. Lo stesso crollo dello stalinismo, se da un lato è stato capitalizzato prevalentemente a destra, dall’altro ha eliminato un ostacolo storico sul terreno del possibile sviluppo del trotskismo, in particolare nell’avanguardia della giovane generazione. Ma alla sola condizione di comprendere la complessità dell’impresa. E dunque innanzitutto di lavorare al raggruppamento unitario, in ogni paese e su scala mondiale, di tutte le forze che si riconoscono nei principi e nel programma del marxismo rivoluzionario, fuori da ogni logica autoconservativa. È il tema della costruzione dell’Internazionale rivoluzionaria. È il metodo con cui Lenin perseguì la costruzione della Terza Internazionale, a partire dal raggruppamento rivoluzionario dalla sinistra di Zimmerwald. È il metodo con cui Trotsky lavorò alla costruzione dell’Opposizione di Sinistra Internazionale e poi della Quarta Internazionale, a partire dal raggruppamento attorno a una linea rigorosa di demarcazione programmatica di forze e tendenze di diversa collocazione e provenienza. Contro l’opportunismo centrista e contro l’autosufficienza settaria.
L’autosufficienza settaria della TMI
La TMI rimuove alla radice questa problematica, rimpiazzandola con uno schemino elementare: crisi verticale del capitalismo, dunque radicalizzazione di massa, dunque… avanzata impetuosa della TMI. Beati i semplici, si potrebbe dire. In realtà è la rinuncia teorizzata a un serio lavoro di costruzione del partito, coperta da affreschi letterari:
Il capitalismo oggi assomiglia a un mostro che sta morendo, malato terminale, decrepito e in decomposizione. Ma si rifiuta di morire. E le conseguenze di questo prolungamento sono estremamente spaventose per l’umanità. Ma questo è solo un lato della medaglia. Sotto i sintomi del decadimento terminale, una nuova società sta lottando per nascere […]. Le masse cercano disperatamente di trovare una via d’uscita dalla crisi. Sono pronte a intraprendere la strada rivoluzionaria, ma sono prive di un programma e di una prospettiva chiara per il futuro […]. Ma alla fine le masse sono costrette ad affrontare la realtà […]. Ma questo può avvenire solo attraverso le più potenti catastrofi sociali ed economiche. (TMI, Il mondo sull’orlo del precipizio e la rivoluzione imminente, 2020)
La radicalizzazione di massa iniziata nel 2008 vedrebbe oggi una seconda ondata:
La prima ondata di radicalizzazione che seguì il crollo del 2008 portò in primo piano quelli che potremmo definire riformisti di sinistra […]. Le speranze delle masse furono elevate solo per essere deluse. (Alan Woods, editoriale di In Defence of Marxism n°43, nostra traduzione)
Woods si riferisce a Tsipras (Syriza) e Iglesias (Podemos) in Grecia e Spagna, a Sanders e Corbyn negli USA e in Gran Bretagna. Ma ora subentra la seconda ondata della radicalizzazione, dove i delusi del riformismo si volgono a sinistra preparando “la strada per l’ascesa di un’autentica tendenza comunista”:
Ne vediamo prove evidenti in molti paesi, compresi gli Stati Uniti […]. Di conseguenza, molti dei giovani più avanzati non desiderano più essere associati nemmeno alla parola “socialismo”, che identificano con la codarda capitolazione al sistema attuale. Stanno cercando una bandiera pulita e una dedizione chiara e inequivocabile alla guerra di classe e alla rivoluzione sociale. Vogliono il comunismo e nient’altro basterà. (Alan Woods, editoriale di In Defence of Marxism n°43, nostra traduzione)
Tutta la campagna internazionale Sei comunista? Allora organizzati! si basa su questa retorica ampollosa, che confonde elementi parziali (e importanti) di nuova sensibilità critica verso l’ordine esistente presenti in settori giovanili con una generale domanda comunista emergente nella gioventù del mondo, che cercherebbe riferimento nella TMI. L’analisi marxista della realtà è rimpiazzata dalla sua caricatura propagandistica. È appena il caso di notare un risvolto opportunistico di questa visione estatica. Siccome sarebbe in corso la transizione verso il campo rivoluzionario dei delusi del riformismo di sinistra, la TMI raccomanda di non disturbarla con la denuncia dei leader riformisti:
Gli opportunisti non muovono critiche ai riformisti di sinistra e diventano a tutti gli effetti una sorta di fan club. All’altro estremo, i settari senza cervello che si credono grandi rivoluzionari perché hanno letto qualche riga di Trotsky, senza capire una sola parola, dichiarano a gran voce che questo o quel leader di sinistra tradirà. Non c’è spazio nei ranghi della TMI per nessuna di queste due deviazioni. È difficile dire quale dei due faccia più male alla causa dell’autentico marxismo. (TMI, Il mondo sull’orlo del precipizio e la rivoluzione imminente, 2020)
In altri termini non c’è bisogno di prevedere e denunciare i tradimenti, perché a questo pensa già l’esperienza, e la radicalizzazione in corso. Come se la previsione e denuncia dei tradimenti burocratici non fosse decisiva per sviluppare la coscienza delle masse e favorire la maturazione rivoluzionaria dell’avanguardia.
Toni enfatici e messianici. La psicologia politica di una organizzazione autoconservativa
Se il ruolo centrale della TMI non è quello di contrapporsi alle direzioni riformiste ma di porsi alla testa della domanda comunista emergente nella gioventù, seguono inevitabilmente toni enfatici e persino messianici:
Nel XVII secolo in Inghilterra si combatté la prima rivoluzione borghese sotto le insegne della religione. I puritani credevano che la fine del mondo fosse vicina e che il regno di Dio stesse inevitabilmente arrivando. I calvinisti credevano con fervore nella predestinazione. Tutto era predestinato dalla volontà di Dio […]. Ma questa convinzione non ha in alcun modo intaccato il loro fervore rivoluzionario […]. Al contrario, li ha spronati a grandi imprese di coraggio e audacia rivoluzionaria. Esattamente lo stesso compito spetta oggi ai rivoluzionari. E noi lo affronteremo esattamente con lo stesso spirito di determinazione rivoluzionaria. La differenza è che, diversamente da loro, noi saremo armati delle teorie scientifiche del marxismo rivoluzionario. (TMI, Il mondo sull’orlo del precipizio e la rivoluzione imminente, 2020)
La determinazione “calvinista” sospingerebbe a sua volta lo sviluppo travolgente della TMI, che passerebbe di vittoria in vittoria:
La TMI sta facendo progressi costanti. Questo è riconosciuto sia dai nostri amici che dai nostri nemici. La recente Università Marxista Internazionale ha dimostrato che le nostre idee stanno già raggiungendo migliaia dei lavoratori e dei giovani più avanzati in cerca della strada rivoluzionaria. È stato un enorme passo avanti, ma è solo l’inizio. Le migliaia si trasformeranno in decine di migliaia, e alla fine ci permetteranno di raggiungere i milioni. Non è affatto la stessa cosa entrare in una nuova fase della rivoluzione mondiale con un gruppo di venti piuttosto che con un’organizzazione di mille persone. È un compito difficile, ma inevitabile. Il compito più difficile è passare dalla prima piccola manciata di compagni ai primi cento. Anche passare dai primi cento ai primi mille non è semplice, ma è molto più facile. Ma passare da mille a diecimila è ancora più facile. E passare da diecimila a centomila è solo un passo. Per prendere in prestito una frase dalla fisica, dobbiamo raggiungere la massa critica, quel punto in cui la TMI potrà davvero entrare in gioco come un fattore decisivo nella situazione. Soprattutto, dobbiamo prestare attenzione alla formazione dei quadri. Si parte dalla qualità, che a un certo punto si trasforma in quantità, che a sua volta diventa qualità. Questo è il compito che ci attende. Solo realizzandolo sarà possibile porre fine all’incubo del capitalismo e aprire la strada a un mondo nuovo e migliore sotto il socialismo. (TMI, Il mondo sull’orlo del precipizio e la rivoluzione imminente, 2020)
Questa è la conclusione del testo della TMI del 2020 Il mondo sull’orlo del precipizio e la rivoluzione imminente. Non sappiamo se la progressione geometrica annunciata delle forze della TMI nei quattro anni successivi alla “rivoluzione imminente” si sia realizzata. Abbiamo qualche dubbio al riguardo, non avendo a disposizione la fede. Ma il punto è di valenza politica. La TMI considera il proprio sviluppo come il portato naturale della rivoluzione mondiale imminente, e candida sé stessa a direzione politica della rivoluzione. Il tema del partito rivoluzionario, in ogni paese e su scala mondiale, si risolverebbe nell’autoconservazione e sviluppo della TMI su sé stessa. Il processo di costruzione o ricostruzione dell’Internazionale rivoluzionaria, in tutta la sua complessità, viene semplicemente rimosso per il semplice fatto che sarebbe già in via di soluzione. La TMI sarebbe infatti elevata dalla cresta dell’onda della rivoluzione imminente e della domanda comunista della gioventù.
Lo stesso annuncio del lancio dell’Internazionale Comunista Rivoluzionaria (ICR), formulato nel febbraio 2024 e previsto per l’estate 2024 (su cui torneremo con un prossimo intervento specifico), altro non è che l’auto-proposizione della TMI, in una confezione retorica ancor più roboante. A conferma della sua logica totalmente autocentrata.
L’autosufficienza settaria è la cifra della TMI. “Non avrai altro Dio al di fuori di me” è la scuola cui vengono formati i suoi quadri e la stessa psicologia collettiva dell’organizzazione. La TMI è la “tendenza marxista” internazionale (abbiamo visto in realtà con quali distorsioni politiche e programmatiche). I loro fondatori e dirigenti Grant e Woods sono gli eredi di Marx, di Lenin, di Trotsky. La loro storia ed esperienza sono la storia del trotskismo. Le altre organizzazioni, nazionali e internazionali del movimento trotskista (complessivamente diverse decine di migliaia di militanti rivoluzionari nel mondo) sono considerate indistintamente “una miriade di sette che brulicano attorno alla periferia del movimento operaio”, segnate da “disfattismo, scetticismo e demoralizzazione” (Alan Woods, editoriale di In Defence of Marxism n°43, nostra traduzione), perché incapaci di comprendere la rivoluzione mondiale imminente. O in ogni caso perché estranei alla storia della TMI o in rottura con questa.
È il caso di importanti organizzazioni rivoluzionarie nel mondo. È il caso del Partito Operaio Rivoluzionario russo, la principale formazione trotskista in Russia, che ha rotto in tempi recenti proprio con Alan Woods. È il caso del nuovo NPA in Francia, recentemente nato da una rottura con la linea pablista della vecchia organizzazione, dotato di una importante presenza tra i giovani e nei sindacati. È il caso in particolare delle organizzazioni del marxismo rivoluzionario argentino, oggi raccolte nel FIT-U, che organizzano complessivamente nella sola Argentina 6000–7000 militanti trotskisti, dirigono lotte di massa, dispongono di una presenza parlamentare frutto di un consenso di 800.000 elettori. Sono tutte organizzazioni con cui il PCL e l’Opposizione Troskista Internazionale ricercano il confronto e perseguono il raggruppamento. Per la TMI tutto ciò non esiste. Peggio, è un cumulo di sette, indegno delle sue attenzioni. Per di più in paesi nei quali, ripetiamo, la TMI è assente o molto marginale, in ogni caso irrilevante.
La psicologia politica di una setta è molto esigente. Esige il rifiuto di ogni serio confronto con altre organizzazioni e tendenze. Esige l’assenza di bilanci critici che potrebbero porre in discussione l’infallibilità dei capi danneggiando la loro sacralità. Esige l’assenza di un vero confronto interno di posizioni (con tanto di diritto di tendenza): non a caso tutte le risoluzioni della TMI, incluse quelle congressuali, sono prese sempre all’unanimità e come tali pubblicamente presentate. Né peraltro è possibile avere documentazione di qualsivoglia discussione e confronto di posizioni all’interno della TMI e/o delle sue sezioni, come vorrebbe il centralismo democratico e la tradizione del bolscevismo. Non sono rilievi marginali. Sono il riflesso della natura politica di una organizzazione.
FalceMartello e SCR, il ricalco italiano della TMI
La sezione italiana della TMI, ieri FalceMartello (FM), oggi Sinistra Classe Rivoluzione (SCR), è stata ed è un ricalco della sua sezione britannica. Nella sua storia, nella sua impostazione politica, nella sua natura.
La parabola dell’entrismo strategico è stata seguita per decenni. Prima verso il PCI, poi addirittura nel PDS, infine in Rifondazione Comunista. In ognuno di questi contesti l’impostazione non fu mai quella dell’accumulo delle forze nella prospettiva della rottura, ma la salvaguardia di uno spazio sine die di propaganda per le “idee marxiste”. Così è stato nella lunga permanenza in Rifondazione Comunista.
Lo scarto di metodo con la nostra impostazione dell’entrismo nel PRC fu subito evidente. L’Associazione Marxista Rivoluzionaria (AMR) – Proposta, poi Progetto Comunista, antesignana del futuro PCL, concepì da subito l’inserimento nel PRC in funzione di una politica di raggruppamento rivoluzionario: si trattava di prender parte, sin dal suo inizio, ad un processo di ricomposizione politica del movimento operaio italiano sospinto dallo scioglimento del PCI, quindi dal crollo dello stalinismo internazionale, per puntare a raccogliere e formare su basi marxiste la parte migliore delle forze che il PRC aveva polarizzato nella prospettiva della costruzione di un partito rivoluzionario indipendente, cioè di una inevitabile rottura. La rottura a sua volta avrebbe richiesto due condizioni: lo sviluppo nel PRC di un’organizzazione-frazione marxista rivoluzionaria mirata allo scopo (fattore soggettivo) e la maturazione delle condizioni politiche di contesto che rendessero comprensibile la scelta della rottura (fattore oggettivo). Dalla fine degli anni ‘90 razionalizzammo la prospettiva in termini precisi: avremmo rotto col PRC nel momento in cui quel partito fosse entrato in un governo borghese di centrosinistra, obiettivo centrale sin dall’inizio del suo gruppo dirigente. Perché quell’evento da un lato avrebbe rappresentato la consumazione di un tradimento di classe, dall’altro avrebbe liberato a sinistra uno spazio politico riconoscibile. Il passaggio di Progetto Comunista da area congressuale ad area programmatica ed organizzazione lo concepimmo in funzione di quella prospettiva. Era il metodo del trotskismo, la concezione rivoluzionaria dell’entrismo.
L’entrismo strategico di FalceMartello in Rifondazione
FalceMartello seguì una logica completamente diversa. Sulla scia dell’entrismo strategico nel PCI, restò nel PDS dopo la Bolognina, non capendo la dinamica di ricomposizione attorno a Rifondazione Comunista di un ampio settore dell’avanguardia del movimento operaio. Furono necessari più di due anni, con lo sfondamento elettorale del PRC a Milano e Torino e il relativo sorpasso sul PDS, perché Grant e Woods dettassero a FalceMartello un cambio di collocazione. Ma l’ingresso nel PRC fu concepito come un semplice cambio di casa in cui trasferire le proprie cose, senza prospettiva strategica. Tanto più senza prospettiva di rottura. Il voto a favore dei documenti congressuali dell’opposizione interna al partito, guidata dalla nostra organizzazione, fu un semplice atto di posizionamento. Quando Progetto Comunista passò da area congressuale ad organizzazione, per decisione di un’assemblea nazionale di delegati, i compagni di FalceMartello decisero di astenersi per marcare la propria riserva. La riserva aveva un preciso significato: il rifiuto anche solo di considerare una prospettiva di rottura col PRC.
La demarcazione di FalceMartello da Progetto Comunista investì anche le posizioni di merito. Progetto Comunista capì la mutazione liberale dei DS, trainata dalla lunga legislatura di centrosinistra (1996–2001) e dalla moltiplicazione delle sue relazioni materiali con la grande borghesia, che peraltro aveva assunto proprio il centrosinistra come propria rappresentanza nella Seconda Repubblica. FM al contrario continuò a teorizzare come se nulla fosse accaduto la natura “operaia” dei DS. Progetto Comunista contrappose al blocco coi DS e altre forze borghesi, perseguito da Bertinotti, la necessità di un polo autonomo di classe di cui il PRC fosse perno e catalizzatore. FM al contrario sviluppò la proposta di un “fronte unico” tra PRC e DS come traduzione dell’unità di classe. Progetto Comunista fece della battaglia contro la prospettiva governista del PRC l’asse di raggruppamento dell’opposizione interna, combinata con la sua qualificazione marxista rivoluzionaria. FM avanzò la proposta di un governo PRC-DS come “governo operaio”, in aperta polemica contro la nostra pregiudiziale antigovernista.
Questa differenziazione progressiva attraversò gli anni cruciali della parabola bertinottiana. Al V Congresso del partito (2002) FM presentò un insieme di emendamenti al testo congressuale di Progetto Comunista, che configuravano di fatto un’altra posizione complessiva. Al VI Congresso di Venezia (2005), incentrato sull’imminente svolta di governo, FM presentò un proprio documento congressuale distinto. Non fu solo una scelta di merito sulle posizioni politiche del nostro testo. Fu innanzitutto la scelta di demarcarsi da una prospettiva di rottura col PRC proprio alla vigilia della sua svolta.
La divaricazione tra Progetto Comunista e FM precipitò non a caso nel momento dell’accesso del PRC al governo. Noi denunciammo da subito la natura dell’operazione da un punto di vista di classe: il PRC passava da “cuore dell’opposizione” (così recitavano i primi slogan e manifesti elettorali del PRC nel 1992), fosse pure su un programma riformista, a componente del governo capitalista della settima potenza imperialista del mondo. Contro questa ricollocazione chiedemmo l’immediata convocazione del Congresso straordinario del partito. Denunciammo il tradimento delle ragioni sociali e politiche del partito e dei movimenti di lotta. Denunciammo la natura capitalistica del programma di Romano Prodi su cui si realizzava l’Unione tra Ulivo e PRC:
Non un programma “ambiguo” o “lacunoso” o “insufficiente” come si ostinano a considerarlo i dirigenti critici di Ernesto ed Erre. Ma il programma degli industriali e dei banchieri. Non un programma “inadeguato” per l’alternativa ma il programma del capitalismo italiano contro i lavoratori e i movimenti di lotta di questi anni. (Marco Ferrando, editoriale di Progetto Comunista, febbraio 2006)
Infine, dichiarammo che:
Quanto a noi di Progetto Comunista chiediamo che su questo ulteriore scivolamento a destra del partito si sviluppi un dibattito democratico tra gli iscritti, con una conferenza per delegati. Se ciò non avverrà e si realizzerà l’ingresso nel governo confindustriale, coerenti con quanto abbiamo affermato da tempo, e cioè che “nessun governo borghese sarà privato di una opposizione di classe e comunista”, ne trarremo le conseguenze e apriremo tra tutti i militanti critici del partito, di qualunque provenienza congressuale e anche tra quelli della sinistra esterna al PRC, la prospettiva della costruzione di una nuova forza politica di classe e comunista. (Franco Grisolia, sintesi intervento al CPN del PRC, 22–23 aprile 2006)
Era l’annuncio onesto e pubblico delle ragioni della scissione. Una aperta assunzione di responsabilità. FM si contrappose frontalmente alla scelta:
Alle difficoltà del PRC non si può rispondere con avventure scissionistiche […] voltando le spalle a un partito che comunque è stato investito da tante speranze di cambiamento (Sergio Dalmasso, Rifondazione Comunista—Dal movimento dei movimenti alla chiusura di “Liberazione”, storia di un partito nella crisi della sinistra italiana)
Il fatto che le speranze di cambiamento venissero tradite nel nome dei ministeri borghesi e di una Presidenza della Camera era giudicato irrilevante. L’importante era preservare, ad ogni costo, il proprio entrismo strategico nel PRC. Come dettava la scuola britannica.
La permanenza nel PRC negli anni di Prodi e dopo il suo tracollo. Il sostegno all’ex ministro Ferrero nel 2008
Nei due anni di macelleria sociale del governo Prodi col coinvolgimento del ministro Paolo Ferrero (compreso il voto alle missioni di guerra e la più grande detassazione dei profitti di grandi banche e imprese) FM mantenne il proprio ruolo negli organismi dirigenti del PRC. Nel CPN convocato per sostenere il mantenimento di truppe italiane in Afghanistan (17–18 giugno 2006) il documento critico di FM prese il 2% dei voti. Nella Direzione Nazionale convocata sullo stesso tema (17 luglio) un solo voto. In cambio di una marginalità critica testimoniale la scelta di restare nel PRC finiva col coprire il PRC a sinistra, nel momento della sua massima compromissione con la borghesia, contro la nascita del Partito Comunista dei Lavoratori. Una scelta di internità al PRC che venne mantenuta un anno dopo, anche dopo la separazione di Sinistra Critica (pablista, oggi Sinistra Anticapitalista) a seguito della radiazione di Turigliatto.
Dopo due anni di compromissione governativa (2006–2008) il PRC ne uscì con le ossa rotte, a partire dalla perdita di oltre tre milioni di voti. Come partito di riferimento dell’avanguardia larga dei movimenti Rifondazione Comunista era crollata, come era prevedibile e come Progetto Comunista aveva previsto. Il fatto che la compromissione e il tracollo del PRC sia avvenuto prevalentemente in forma passiva, in direzione dell’abbandono e della disgregazione, ha sicuramente complicato la costruzione del PCL. Ma certo il crollo di Rifondazione ha investito il movimento operaio italiano e la stessa credibilità della sinistra politica in Italia, aprendo il varco a passivizzazione di massa e a populismi reazionari. Tutto ciò alla vigilia della grande crisi capitalistica del 2008.
Ciò nonostante, FM non solo restò nel PRC ma entrò organicamente nella nuova maggioranza dirigente del partito guidata dall’ex ministro Paolo Ferrero, il più responsabile e corresponsabile della compromissione distruttiva del PRC attorno alle politiche antioperaie di Prodi. Invece di porre Ferrero di fronte alle sue responsabilità e al bilancio disastroso della sua politica, FM avallò la sua conversione trasformistica votandolo come nuovo segretario del partito. La contropartita della capitolazione fu l’ingresso di FM nella segreteria del PRC in occasione del Congresso di Chianciano (2008).
Quando la destra vendoliana del partito attivò la propria separazione per dare vita a Sinistra Ecologia Libertà, FM presentò l’evento come prova di una improbabile “svolta a sinistra” di Ferrero. In realtà l’unica vera svolta era il relegamento obbligato del PRC all’opposizione, senza alcun vero bilancio e senza cambio di prospettiva. La retorica ferreriana del “partito sociale” e le sue prime azioni (vendita di generi di prima necessità a basso prezzo attraverso la partecipazione ai gruppi di acquisto solidale e la promozione di iniziative sociali) copriva infatti la ricerca di un rilancio del PRC come soggetto negoziale di un nuovo possibile centrosinistra. Da qui, in occasione delle elezioni europee (2009), la nascita di un nuovo cartello politico elettorale tra il PRC, il PdCI di Diliberto, Socialismo 2000 di Cesare Salvi di provenienza DS, e altri soggetti minori (Consumatori Uniti). Un’aggregazione con la vecchia sinistra governativa del centrosinistra per cercare (invano) di guadagnare il 4% e ritornare nel gioco di alleanze più larghe. Non a caso, peraltro, il PRC continuava a sostenere le giunte locali borghesi del centrosinistra.
FM in maggioranza coprì di fatto il “nuovo” corso. Salvo vedersi scaricati da Ferrero nel nome della ricomposizione con la destra interna di provenienza vendoliana (settembre 2009) e del varo annunciato della Federazione della Sinistra con Diliberto e Salvi. Una Federazione la cui prima proposta sarà una ricomposizione dell’alleanza elettorale col “nuovo” PD di Bersani, e con Antonio Di Pietro… Altro che “svolta a sinistra”. Tutta la falsa retorica di Chianciano era svanita come neve al sole. FM si ritrovò fuori dalla segreteria nazionale dopo essersi corresponsabilizzata per oltre un anno (e quale anno) a sostegno di un ex ministro, in un partito tracollato.
FM resterà nel PRC negli anni successivi sino al 2016, partecipando ai congressi del 2011 e del 2013 con propri documenti alternativi, sotto la sigla di “Sinistra, Classe, Rivoluzione”. L’uscita nel 2016 fu presentata come risultante dell’esaurimento della ragione di Rifondazione quale strumento di costruzione del partito di classe, senza una sola riga di bilancio del proprio sostegno a Ferrero nel 2008 (La nostra uscita da Rifondazione Comunista, 8 gennaio 2016). La verità è che il collasso del PRC aveva privato l’entrismo strategico del suo spazio residuale, dimostrando il fallimento di un’impostazione. Si veda a tal proposito quanto il PCL scrisse all’epoca, a commento del comunicato di FalceMartello (Sull’uscita di FalceMartello da Rifondazione Comunista. Né un bilancio né una prospettiva, 14 gennaio 2016).
SCR in mare aperto. La mitologia dell’esplosione sociale imminente in Italia
Parallelamente, SCR si era sintonizzata con la nuova narrazione della TMI post-2008 circa l’imminenza della rivoluzione mondiale. La stessa uscita dal PRC con l’esperienza inedita di una navigazione in mare aperto fu in parte influenzata dalla nuova suggestione. Sicuramente quest’ultima ha inciso in varie forme sui posizionamenti politici dell’organizzazione. Sia sull’analisi dello scenario italiano sia sulle scelte di SCR.
Sul piano dell’analisi SCR ha rimosso per un decennio l’elemento centrale dello scenario italiano: la profondità e la durata del riflusso del movimento operaio senza punti di paragone tra i paesi imperialisti. Un riflusso iniziato non a caso con l’esperienza traumatica del governo Prodi e dispiegatosi in forma non rettilinea nel successivo decennio.
L’irruzione della crisi capitalistica internazionale non solo non ha sospinto la radicalizzazione di massa della classe operaia italiana ma, incrociandosi con una parabola politica discendente, ha finito con alimentare quest’ultima, come il metodo dialettico di Trotsky (a differenza di quello della TMI) permetteva di comprendere. Da qui la rapida propagazione tra i salariati di varie forme di populismo reazionario (grillismo, salvinismo, melonismo), tutte relativamente instabili, ma in successione l’una con l’altra. Ciò che a sua volta ha aggravato la marginalità di una sinistra politica già collassata con Prodi e che invano ha cercato una via d’uscita mettendosi in sintonia con gli umori populisti e aclassisti (vedi l’infinita sequenza di operazioni civiche con i Di Pietro, gli Ingroia, i De Magistris), finendo così col contribuirvi.
Naturalmente questa situazione negativa non è stabilizzata sine die. Come abbiamo sempre detto, contrastando apertamente ogni pessimismo catastrofista, la situazione italiana resta esposta alla possibilità di brusche svolte, tutte inscritte nell’instabilità mondiale. Un’organizzazione rivoluzionaria deve sempre essere pronta a registrarle e intercettarle. Ma alla condizione di partire dalla comprensione della realtà qual è, col metodo dell’analisi marxista.
Il gruppo dirigente di SCR ha fatto l’opposto. La sua tesi di fondo, in accordo coi testi della TMI, era ed è che la crisi capitalista sospinge la radicalizzazione “inevitabile” della classe operaia italiana. Ogni elemento della realtà è stato ricondotto a questo schema ideologico precostituito.
L’esplosione del Movimento 5 Stelle tra i salariati fra il 2012 e il 2018 non fu letto come riflesso passivo del riflusso ma come espressione della radicalizzazione della classe. Con qualche infortunio grottesco. Nel momento in cui il primo M5S si colorava di tinte populistico-reazionarie, fortunatamente passive, contro l’esistenza stessa dei sindacati e dei partiti (nel nome dell’ideologia “uno vale uno”), SCR chiedeva al M5S di passare dalle parole ai fatti convocando “assemblee popolari” per rovesciare il governo:
Ma i Cinque Stelle? Cosa aspettano i vari Grillo, Di Maio, Di Battista, ecc. a fare appello alle piazze? A organizzare assemblee, proteste, manifestazioni? Il M5S ha il seguito di milioni di elettori, se li chiamasse a una mobilitazione attiva per cacciare il governo ed esigere elezioni, la risposta sarebbe enorme. (editoriale di Rivoluzione n°27, 1° febbraio 2017)
Nei fatti un appello al populismo reazionario nel nome del popolo. L’esatto opposto di una politica marxista. La sconfitta di Renzi nel referendum istituzionale del 2016, ovviamente importante e positiva in sé ma espressione di una sommatoria di umori trasversali, anche populistici, fu salutata come prova della radicalizzazione di massa e dell’esplosione imminente. Il fatto che dopo lo sciopero di massa contro la Buona Scuola e le lotte contro il Jobs Act non vi sia stato un altro vero crinale di scontro generale partecipato e riconoscibile veniva totalmente cancellato. L’esplosione sociale o era in atto o era sempre e comunque alle soglie, come del resto affermava la TMI. Se i fatti non si accordavano con la teoria, tanto peggio per i fatti.
Un altro risvolto della teoria dell’ascesa fu la previsione di un “nuovo partito del lavoro” per iniziativa di Maurizio Landini. Le manovre di Landini per scalare la segreteria CGIL, incluse le sue posture politiche sulla necessità di una “Coalizione Sociale” (2015), furono in realtà interpretate come la preparazione di un nuovo partito di massa della classe operaia, con Landini a capo, imposto dall’incontenibile pressione delle lotte. Da qui un appoggio critico di SCR a Landini e la preghiera di evitare eccessi polemici nei suoi confronti anche da parte dell’opposizione interna alla CGIL. Una postura opportunista. Perché un conto sarebbe ed è rivendicare, come il PCL oggi fa, un partito della classe lavoratrice sulla base di un programma anticapitalista come arma di lotta contro la politica della burocrazia sindacale (che a questa prospettiva non pensa minimamente). Un altro è appoggiare la burocrazia attribuendole la volontà di esprimere la rappresentanza politica della classe sotto la pressione travolgente della classe. Una previsione oltretutto clamorosamente smentita dai fatti.
Anche l’esperienza di Sinistra Rivoluzionaria nel 2018—un blocco elettorale tra il PCL e SCR—fu concepita da SCR con lenti distorte. Per il PCL si trattò di una scelta imposta da una legge elettorale che nelle condizioni date impediva la presentazione indipendente del nostro partito. Sapevamo che la mancata presentazione del PCL col proprio simbolo riconoscibile avrebbe avuto ricadute negative sul risultato. E soprattutto avevamo presente il contesto generale di ripiegamento della lotta di classe che rendeva la presenza elettorale dei marxisti rivoluzionari tanto importante quanto impervia e controcorrente. Invece SCR muoveva dalla tesi della radicalizzazione di massa della gioventù del mondo, e dunque anche italiana. L’inedita partecipazione alle elezioni aveva lo scopo di mettersi sulla scia di questo grande flusso. Nella campagna elettorale Claudio Bellotti, dirigente di SCR, evitò ogni polemica con le altre liste di sinistra concorrenti proprio nel nome della diretta interlocuzione con la grande domanda di svolta dei giovani. Di fronte alla precisa domanda, nella Tribuna Elettorale conclusiva, “cosa vi distingue dalle altre liste della sinistra?”, la risposta fu “non sono qui per fare polemiche a sinistra”. Con l’effetto di danneggiare, in una situazione già impari, la riconoscibilità delle ragioni di una lista rivoluzionaria. Quando il pessimo risultato (peggiore in verità delle nostre già modeste previsioni) smentì la tesi della radicalizzazione, la reazione di SCR fu di negare l’evidenza, esaltando il risultato stesso (0,08%) e la campagna elettorale della propria organizzazione.
La rivoluzione imminente e “Le Giornate di Marzo” in CGIL
L’esaltazione ideologica della “sollevazione imminente” ha avuto anche altre ricadute su scelte importanti di SCR. La scissione della minoranza CGIL e la costituzione di una propria organizzazione di partito in CGIL (“Le Giornate di Marzo”) nel 2020 fu una di queste. Nel marzo del 2020, nel momento della drammatica esplosione Covid, vi furono in diverse fabbriche del Nord scioperi spontanei per chiedere sicurezza sul lavoro, contro le pretese dei padroni. Si trattò di un episodio importante, proprio perché in controtendenza con la dinamica di passivizzazione, che oltretutto indusse le burocrazie sindacali a siglare un accordo (truffa) col governo Conte per calmare le acque. Si trattava certo di valorizzare l’episodio, di segnalarne le potenzialità, di farne terreno di scontro con la politica della burocrazia denunciando le sue responsabilità. Senza però perdere di vista il contesto generale.
SCR invece vide in quelle che chiamò “Le Giornate di Marzo” il segno inequivocabile della grande esplosione da tanto tempo annunciata, il riflesso in Italia della dinamica mondiale: “una mobilitazione che ha avuto un chiaro carattere globale senza precedenti nella storia”. Le tesi approvate alla terza conferenza nazionale dei lavoratori di SCR (Dalle giornate di marzo alle mobilitazioni del futuro, 5 luglio 2020) non lasciano spazio al dubbio. Gli scioperi diventano “una spinta dirompente e generale della classe che […] si compatta nel giro di pochi giorni se non di poche ore”, “un punto di rottura fondamentale” che ha spazzato via “questi ultimi 10 anni di apatia sindacale” (quella che SCR aveva sempre negato), “per rivedere una generalizzazione di scioperi spontanei bisogna risalire indietro sino al 1992/93”, “una crescita della coscienza del ruolo che [i lavoratori, NdR] occupano nella società”, “un fenomeno che si è generalizzato a livello mondiale”.
Soprattutto l’esplosione sociale avrebbe rivelato:
La completa incapacità [dei dirigenti sindacali, NdR] di controllare la classe. L’apparato sindacale di oggi non è quella di fine anni ‘70, che andava nelle fabbriche a difendere la politica dei sacrifici. Al contrario, non appena si muove qualcosa sono costretti a mettersi al seguito […]. Già da questa estate e ancor più dall’autunno vedremo l’esplosione di mobilitazioni spontanee e autorganizzate. I vertici sindacali non potranno opporsi a questa ondata di lotte, non hanno l’autorità sufficiente per frenare i lavoratori, non siamo più nel 2009–2012 quando la classe operaia venne stordita dalla imponenza della crisi, quell’esperienza è stata già fatta e oggi siamo entrati in una fase completamente diversa. (Dalle giornate di marzo alle mobilitazioni del futuro, 5 luglio 2020)
Da questo affresco la conclusione politica. Se la radicalità di massa sta esplodendo, se le burocrazie sindacali lungi dal controllarla sono costrette a muoversi a rimorchio, occorre mettersi in proprio in CGIL, e cioè costruire la propria corrente di partito quale riferimento naturale della lotta imminente. Da qui la scissione dell’opposizione interna alla CGIL (all’epoca, “Il sindacato è un’altra cosa”).
Paradossalmente una scissione “da destra”. “Il Sindacato è un’altra cosa”—incline in realtà con la sua attuale leadership ad una “opposizione di Sua Maestà”—venne infatti accusato di fare “pompose dichiarazioni di alto tradimento su ogni genere di questione nei confronti degli apparati sindacali e della maggioranza della CGIL” (atteggiamento “inutile e dannoso” per SCR) per il semplice fatto di non aver “creduto minimamente nelle potenzialità di questo movimento”, di non aver riconosciuto le “prove decisive della lotta di classe”. Da qui la previsione irrevocabile della sua scomparsa.
Naturalmente i fatti ancora una volta sono andati diversamente dalla loro narrazione apologetica o catastrofica. L’esplosione sociale annunciata non c’è stata. La burocrazia sindacale prosegue la propria politica di tradimento. “Le Giornate di Marzo” è rimasto un titolo indecifrabile ai più. E all’ultimo congresso della CGIL (2023) la frazione sindacale di SCR ha dovuto far blocco con quelle sinistre sindacali che dovevano scomparire. Ma non è questo il punto. Il punto è che tutte le scelte di SCR discendono da una lettura indifferente ai fatti, e per di più sottratta ad ogni bilancio critico. Come vuole la lunga storia della TMI.
Un disco rotto senza memoria
Del resto, il già citato documento della TMI del 2020 (Il mondo sull’orlo del precipizio e la rivoluzione imminente) aveva presentato proprio l’Italia come “il centro della crisi dell’UE”, segnato da “rabbia e indignazione”:
Improvvisi e bruschi cambiamenti di coscienza sono evidenti […]. I padroni sono all’offensiva, ma i dirigenti sindacali cercano un patto sociale […]. Questa contraddizione sta portando ad una rapida perdita di autorità della dirigenza sindacale, che prepara la strada ad esplosioni ancora più grandi nel prossimo periodo. Si prepara il terreno per un’esplosione della lotta di classe come non si vedeva dagli anni ‘70. Questo ha serie implicazioni per tutta l’Europa. (TMI, Il mondo sull’orlo del precipizio e la rivoluzione imminente, 2020)
In questo quadro la stessa vittoria elettorale di Giorgia Meloni, e l’affermazione di un governo a guida post-fascista (settembre–ottobre 2022), fu letta dalla TMI come:
Uno sviluppo profondamente preoccupante per la borghesia italiana e per l’imperialismo […]. La crisi attuale, con l’impennata dell’inflazione, i bassi salari, l’alto tasso di disoccupazione, insieme alle politiche reazionarie su questioni come il diritto all’aborto, l’immigrazione ecc. è una ricetta già pronta per l’esplosione della lotta di classe e delle proteste dei lavoratori e dei giovani. (Congresso mondiale TMI, Il mondo nel 2023: crisi, guerra e rivoluzione, agosto 2023)
Un eterno disco rotto, senza memoria. Che non educa né le masse né le avanguardie.
In conclusione. La conservazione di una setta, la costruzione di un partito
Come fanno SCR e la TMI a convivere con la smentita sistematica delle proprie previsioni, letture, posizioni? Con la retorica della propria organizzazione. In Italia, come internazionalmente. Con la costruzione artificiale di una bolla auto-esaltativa che ogni volta declina al futuro i propri immancabili trionfi senza mai rivolgere uno sguardo al paragrafo precedente del libro. È l’opposto del metodo marxista.
La costruzione di un partito rivoluzionario è cosa terribilmente complessa. Tanto più in uno scenario da tempo sfavorevole come quello italiano. Come PCL lo verifichiamo ogni giorno. Lo stesso vale internazionalmente. Non glorifichiamo i risultati del nostro percorso di costruzione. Ne vediamo tutte le difficoltà. Ma possiamo vantare alcuni caratteri che ci distinguono, e che consideriamo decisivi per il futuro. La fedeltà al programma del marxismo rivoluzionario e la disponibilità a svilupparlo sulle sue proprie basi. L’uso del metodo dialettico nell’analisi della realtà, fuori da schemi immaginifici e distorti. L’abitudine al confronto libero e democratico delle posizioni, come vuole la tradizione del centralismo democratico leninista. La capacità di interrogarci sui nostri limiti. La volontà di unire i marxisti rivoluzionari su principi comuni in uno stesso partito, sul piano nazionale e internazionale, contro revisionismi opportunisti e autoconservatorismi settari. Non sono risorse sufficienti, ma sicuramente sono necessarie.
La TMI e SCR sono da ogni punto di vista un’altra scuola. Non sono la soluzione, ma parte del problema. Il problema di un movimento trotskista internazionale segnato nella sua maggioranza o da revisionismi politico-programmatici, o da conservatorismi settari della propria frazione, o da una combinazione di entrambi. La TMI (e di riflesso SCR) rappresenta nel movimento trotskista solamente una delle tante internazionali frazione. La sua particolarità sta nel fatto di combinare una revisione centrista del trotskismo, mutuata da una lunga tradizione, col proprio totale isolamento rispetto al resto del movimento trotskista, e persino con l’indisponibilità al confronto con le altre organizzazioni, denunciate da mezzo secolo come “sette”. Questi caratteri di autentica setta non impediscono alla TMI temporanei successi, in questa o quella situazione, come peraltro è accaduto e accade ad altre tendenze e organizzazioni nel mondo, revisioniste e/o settarie, spesso in misura assai più significativa. Sicuramente le impediscono di rappresentare una risposta alla crisi del movimento trotskista.
Partito Comunista dei Lavoratori
Febbraio 2024
La TMI e la guerra in Ucraina
L’esercito ucraino è allo sbando, preso irrimediabilmente alla sprovvista dalla repentinità dell’attacco. In ogni caso, non era in grado di resistere alla potenza dell’esercito russo. […] Che queste notizie siano vere o false, è solo una questione di tempo prima che la capitale ucraina sia in mani russe. La guerra sarà allora, a tutti gli effetti, finita. […] Biden e co. non hanno mai avuto la minima intenzione di fornire supporto militare a Kiev. […] Mentre è troppo presto per dire che la guerra è finita, nessuno può dubitare che i russi raggiungeranno tutti i loro obiettivi dichiarati in un tempo molto breve. […] Questo può fornire a Putin la base per istituire un governo filorusso a Kiev. […] Quando Putin dice che non intende occupare l’Ucraina, non c’è motivo di dubitare della sua parola. Per essere più precisi, non la occuperà a lungo. Sarebbe troppo difficile e molto costoso. (Alan Woods, L’ipocrisia imperialista e l’invasione dell’Ucraina, 25 febbraio 2022)
La natura della guerra
La guerra in Ucraina è un importante terreno di confronto nel campo del marxismo rivoluzionario. È importante cogliere nel loro intreccio i due diversi elementi che confluiscono nello scenario di guerra. Da un lato l’elemento di cornice interimperialista, segnato dal confronto planetario tra potenze vecchie (USA, UE, Giappone) e nuove (Russia e Cina) che si contendono la spartizione del mondo. Dall’altro la guerra tra l’imperialismo russo e l’Ucraina, segnato dalle mire di Mosca verso quella che considera una vecchia provincia dell’Impero russo. Chi nega uno dei due elementi sbaglia sia l’analisi che la posizione politica. Chi coglie la loro connessione deve definire un posizionamento politico che ne assuma la complessità, e ne individui il baricentro.
Al di fuori della cornice mondiale interimperialistica la guerra in Ucraina sarebbe indecifrabile. L’espansione della NATO dopo il crollo dell’URSS, la volontà dell’imperialismo russo di recuperare la sua vecchia area d’influenza in Europa, il sostegno militare degli imperialismi NATO all’Ucraina, sono tutti elementi che concorrono a comporre il quadro della guerra. Ma la guerra non è riducibile a questi elementi. Il baricentro della guerra è l’invasione russa dell’Ucraina, e dunque lo scontro fra Ucraina e Russia. Questo è oggi il campo centrale di battaglia. Gli imperialismi NATO vi intervengono, nel loro proprio interesse, ma non lo rimpiazzano.
Come Opposizione Trotskista Internazionale (OTI), ci opponiamo coerentemente a entrambi i poli imperialisti coinvolti. Innanzitutto, all’imperialismo di casa nostra. Per questo non abbiamo partecipato agli appelli per l’invio di armi all’Ucraina; denunciamo la corsa agli armamenti di tutti gli imperialismi; denunciamo il vergognoso voto favorevole ai bilanci militari degli imperialismi NATO da parte di sinistre cosiddette radicali che si presentano come pacifiste (come in Spagna e Finlandia); denunciamo i disegni della NATO e la sua espansione in Europa (Svezia e Finlandia) e sul Pacifico, in contrapposizione alla Cina; denunciamo le sanzioni occidentali contro la Russia, che colpiscono i lavoratori russi e i salariati d’Occidente, fornendo oltretutto armi preziose alla propaganda sciovinista russa; denunciamo a maggior ragione l’odiosa isteria russofoba nel campo della cultura e dello sport, in ogni suo risvolto.
Ma parallelamente, e innanzitutto, ci opponiamo alla guerra dell’imperialismo russo in Ucraina. Una guerra d’invasione che ha le sue specifiche ragioni imperialiste. Una guerra che ha dichiarato al piede di partenza la volontà del regime putiniano di assoggettare l’Ucraina, cancellare il suo diritto all’autodeterminazione (delitto che Putin ha imputato esplicitamente a Lenin), annettere in subordine parte del suo territorio (ben al di là della Crimea, che è russa). Una guerra che si combatte in territorio ucraino, si accanisce coi bombardamenti sulle città e infrastrutture di tutta l’Ucraina, ha prodotto in due anni dieci milioni di sfollati ucraini, in larga misura proletari.
In questa guerra noi abbiamo difeso e difendiamo il diritto di resistenza dell’Ucraina. Quindi il diritto da parte ucraina a usare le armi di cui può disporre, che oggi sono armi di provenienza NATO. La NATO ha dato le armi all’Ucraina in funzione dei propri interessi imperialisti? È ovvio. È la ragione per cui non ne rivendichiamo l’invio, né appoggiamo le richieste d’invio. Ma per quale motivo l’Ucraina non avrebbe il diritto di usare tali armi per contrastare la guerra d’invasione dell’imperialismo russo? È la ragione per cui non sosteniamo il boicottaggio dell’invio di armi all’Ucraina mentre ad esempio sosteniamo con tutte le nostre forze il boicottaggio dell’invio di armi allo Stato sionista. Nell’un caso come nell’altro, difendiamo un diritto di resistenza contro forze imperialiste (o sioniste) di occupazione. Nell’un caso come nell’altro, senza fornire alcun sostegno politico alle leadership della resistenza: né al governo borghese filoccidentale di Zelensky, né al fondamentalismo reazionario di Hamas.
Nel merito, rivendichiamo il ritiro delle truppe dell’imperialismo russo dai territori occupati dopo il 24 febbraio 2022; sosteniamo il diritto di autodeterminazione delle popolazioni del Donbass, che abbiamo difeso dal 2014 contro il governo reazionario ucraino post-Maidan (anche quando le repubbliche “separatiste” erano appoggiate, nei suoi propri interessi, dall’imperialismo russo); sosteniamo l’appartenenza della Crimea alla Russia, contro le pretese del nazionalismo ucraino.
Aggiungiamo che, se la Russia ritirasse le proprie truppe dai territori occupati ed annessi, e l’Ucraina prolungasse la guerra, oppure se la guerra si trasformasse in uno scontro militare diretto tra l’imperialismo russo e gli imperialismi NATO, la natura della guerra cambierebbe e di conseguenza passeremmo ad una posizione di disfattismo bilaterale.
È la posizione di metodo che Lenin argomentò verso la Serbia nel 1914, sostenendo che, se la guerra fosse stata limitata tra l’Austria e la Serbia, allora il dovere dei socialisti sarebbe stato quello di difendere quest’ultima. Ma essendo la guerra contro la Serbia solo una parte infinitesima della grande guerra mondiale imperialista, allora era necessario assumere una posizione disfattista su entrambi i lati.
È il metodo che Lenin e Trotsky hanno affermato in innumerevoli occasioni (come abbiamo documentato ampiamente sulla nostra rivista Marxismo Rivoluzionario, n°19). Una posizione che assume a proprio riferimento le ragioni indipendenti della classe operaia internazionale e delle nazioni oppresse. Sfrutta legittimamente ogni contraddizione tra gli imperialismi in funzione di queste ragioni. Si oppone sempre e comunque a tutti gli imperialismi, da un’angolazione classista e internazionalista.
Una “guerra per procura”?
La TMI ha assunto sulla guerra in Ucraina una posizione diversa, sostanzialmente di disfattismo bilaterale. Non è uno scandalo in sé. Ma consideriamo profondamente sbagliata e (come vedremo) contraddittoria l’analisi su cui si appoggia; totalmente arbitraria la pretesa di motivare la propria posizione facendo riferimento a Trotsky; particolarmente sconcertante la totale assenza della richiesta più elementare di fronte a una guerra imperialista d’invasione: quella del ritiro delle truppe d’occupazione dai territori conquistati dopo il 24 febbraio. Una richiesta, si badi bene, che formalmente sarebbe doverosa persino nel quadro di una posizione di disfattismo bilaterale che volesse essere minimamente coerente. È la riprova della natura opportunista ed equivoca delle posizioni della TMI sulla guerra.
Partiamo dall’analisi. Alan Woods e la direzione della TMI hanno sistematicamente presentato la guerra in Ucraina come una guerra per procura della NATO contro la Russia “fino all’ultima goccia di sangue” ucraino (Alan Woods, L’ipocrisia imperialista e l’invasione dell’Ucraina). Una rappresentazione non particolarmente originale, che, sia detto di passata, coincide persino nei termini usati con la rappresentazione propagandistica corrente dell’imperialismo russo sul proprio versante interno. Il punto è che Alan Woods su tale questione è entrato più volte in contraddizione con sé stesso.
Nel 2022, a inizio invasione, la TMI sentenziava che “gli avvoltoi imperialisti li [gli ucraini] hanno deliberatamente spinto in guerra” (La guerra in Ucraina: una posizione internazionalista di classe—La dichiarazione della TMI, 2 marzo 2022). Era l’esordio della tesi della “guerra per procura”. Ma l’8 aprile 2022, poche settimane dopo, Alan Woods scriveva:
Putin ha fatto male i suoi calcoli? […] Gli ucraini si sono visti come combattenti di una guerra difensiva per “salvare la patria”. E la difesa è sempre un’opzione più sostenibile rispetto all’offensiva. Zelensky, contro il consiglio dell’Occidente, non ha abbandonato il paese, ma è rimasto a Kiev, da dove ha fatto appello alla difesa nazionale, galvanizzando la resistenza del suo esercito e di parte della popolazione ucraina. (Alan Woods, La guerra in Ucraina: realtà e finzione, 8 aprile 2022)
Tutto vero. L’Occidente, attraverso Biden, a poche ore dall’invasione aveva effettivamente offerto a Zelensky di abbandonare il paese per il semplice fatto che non credeva alla sua possibilità di resistere. Fu Zelensky a declinare l’offerta. Ma non è questa la smentita più clamorosa, per ammissione di Woods, di tutta la retorica della guerra per procura? Lungi dal commissionare la guerra a Zelensky, l’imperialismo NATO non aveva previsto né l’invasione russa del 24 febbraio né la resistenza ucraina alla guerra. La resistenza iniziò perché galvanizzata, per usare le parole di Woods, dal suo governo e dal suo stato maggiore militare, a sua volta sostenuti dal sentimento nazionale. Fu solo a quel punto che gli imperialismi NATO si disposero, nel loro proprio interesse, a sostenere militarmente l’Ucraina: non volendo concederla all’imperialismo rivale, e non potendosi presentare ai propri alleati come difensori inaffidabili, pena l’umiliazione del proprio ruolo di gendarmi sulla scena internazionale. Sarebbe questa… una guerra per procura?
Eppure, la TMI manteneva questa caratterizzazione. Nel febbraio 2023, a un anno dall’invasione russa, Alan Woods scriveva:
Washington vede la Russia come una minaccia ai suoi interessi globali […] Il posizionamento di un membro della NATO alle porte della Russia è stato un atto molto chiaro di aggressione non provocata e una provocazione del tipo più spudorato e sfacciato. Mosca non potrebbe mai accettarlo. […] Il punto fondamentale è che si tratta di una guerra per procura tra la Russia e l’imperialismo USA. La Russia non sta combattendo un esercito ucraino, ma un esercito della NATO […] Sono gli USA che pagano i conti e dettano tutto ciò che accade. […] in ultima analisi è Washington che decide. (Alan Woods, L’anniversario sanguinoso della guerra in Ucraina: bilanci e prospettive, 24 febbraio 2023)
In realtà la concreta vicenda della guerra ci parla di una realtà diversa e ben più complessa. Non è la Russia ma la Cina la minaccia globale per Washington. La Russia è avversaria in quanto alleata della Cina. Una parte dell’imperialismo USA, quella più vicino al Pentagono, teme che la guerra in Ucraina possa rinsaldare il blocco tra Russia e Cina avvantaggiando quest’ultima su scala globale. Non a caso gli stati maggiori degli eserciti NATO hanno azionato ripetutamente il freno sugli aiuti militari all’Ucraina perché non vogliono sguarnire i propri arsenali in vista di un possibile confronto con la Cina sul Pacifico. A maggior ragione vedono come la peste il rischio di un coinvolgimento diretto della NATO nello scontro militare con la Russia in Europa.
A ciò si aggiungono problemi politici di consenso sul fronte interno degli imperialismi occidentali e la difficile attesa elettorale in USA. La risultante d’insieme è stata il fallimento della controffensiva ucraina per la mancanza decisiva della copertura aerea. L’idea che la NATO punti al prolungamento della guerra “sino all’ultima goccia di sangue ucraino” cozza, dunque, con uno scenario diverso: le stesse principali diplomazie imperialiste, che non avevano previsto né l’invasione russa né la resistenza ucraina, stanno da tempo lavorando dietro le quinte per cercare una via d’uscita dal conflitto. Possibilmente senza perdere la faccia. Sicuramente senza alcuno scrupolo per le ragioni ucraine circa il recupero dei territori perduti dopo il febbraio 2022. È la ricerca di una pace per procura. Di una pace imperialista.
La crisi politica strisciante che oggi serpeggia in Ucraina non è solo l’effetto del logoramento di due anni di guerra sul proprio territorio, con gli immensi sacrifici umani e materiali che ha comportato. È anche l’effetto del cinismo della politica imperialista.
Quanto all’ingresso dell’Ucraina nella NATO come provocazione scatenante della guerra di Putin si tratta di una sciocchezza. L’ingresso era stato annunciato, con declinazione futuribile, nel 2008. Tale era rimasto nel 2014. Nessuna adesione era alle viste nel 2022. Se mai l’adesione avverrà, sarà l’esito finale dell’invasione russa del 2022, non certo il suo innesco. Lo stesso vale per l’ingresso dell’Ucraina nella UE, tanto annunciata quanto tenuta a distanza, per gli effetti di complicazione, economici e politici, sugli assetti dell’Unione Europea. L’Ucraina non è l’ariete degli imperialismi NATO nella loro guerra contro la Russia, ma la vittima sacrificale dei loro interessi mutevoli e delle loro contraddizioni. È una ragione in più per ricondurre la difesa dell’Ucraina dall’invasione russa alla prospettiva della rivoluzione socialista, su scala nazionale ed europea: l’unica prospettiva che possa liberarla da ogni oppressione imperialista. Non solo, innanzitutto, dall’imperialismo che oggi la invade, ma anche dall’imperialismo che la sostiene come la corda sostiene l’impiccato.
Le motivazioni imperialiste dell’invasione russa
Il principale risvolto della rappresentazione della guerra in Ucraina come guerra per procura della NATO contro la Russia è quella di ignorare o minimizzare le motivazioni imperialiste della guerra russa. Anche qui Woods rincorre le proprie contraddizioni.
L’8 aprile 2022 Woods affermava che “l’obiettivo iniziale [della Russia] era prendere il controllo della capitale, Kiev” (Alan Woods, La guerra in Ucraina: realtà e finzione, 8 aprile 2022), obiettivo poi rimpiazzato, di fronte all’imprevista resistenza ucraina, dalla volontà di conquista della striscia costiera del sud-est e del Donbass nel suo complesso. Analisi corretta: Putin aveva mancato l’obiettivo di installare a Kiev un proprio governo fantoccio e dovette ripiegare sull’obiettivo dell’annessione alla Russia di “solo” quattro provincie ucraine. Ma non si tratta in ogni caso di una propria ragione imperialista, e non di una replica difensiva alla guerra per procura dell’Occidente?
Colpiva peraltro nell’articolo di Woods la rappresentazione benevola e generosa dei caratteri dell’invasione russa:
[…] i russi, ben lungi dal distruggere tutto ciò che gli capita a tiro, hanno dato prova di moderazione per ridurre le vittime civili […] C’è abbondanza di prove che l’esercito ucraino piazzi regolarmente la sua artiglieria nelle aree residenziali in prossimità di scuole e ospedali […] Le atrocità russe: realtà o messinscena? […] presunte atrocità russe a Bucha […].
Eccetera. Toni e argomenti al confine del negazionismo, di cui è zeppa la propaganda filorussa degli ambienti campisti.
Nel febbraio 2023, dopo il primo anno di guerra, Woods approfondiva questa tesi negazionista su un piano più generale:
L’idea che Putin voglia restaurare il vecchio impero zarista reazionario è leggermente più credibile, ma si basa su presupposti anche più inconsistenti e stupidi. […] L’idea che le azioni di Vladimir Putin siano motivate da qualche grande disegno per restaurare l’impero zarista non corrisponde minimamente a tutto ciò che sappiamo dell’uomo. […] Gli obiettivi dichiarati della Russia erano ancora piuttosto moderati […] (Alan Woods, L’anniversario sanguinoso della guerra in Ucraina: bilanci e prospettive, 24 febbraio 2023)
Ma se “l’obiettivo iniziale della Russia era prendere Kiev” e quello subordinato annetterne una parte, come Woods affermava l’anno prima, si tratta forse di “obiettivi moderati”? Non si tratta forse invece di un disegno di restaurazione, totale o parziale, di vecchi confini imperiali, che va ben al di là di una semplice azione difensiva di interdizione? La verità è che fu lo stesso Putin a rivendicare pubblicamente agli occhi del mondo il senso storico neozarista dell’operazione militare speciale, quando affermò solennemente nel discorso del 22 febbraio 2022 che il popolo ucraino, il popolo bielorusso e la loro relativa indipendenza sono stati un’invenzione di Lenin e dei bolscevichi. Da qui la rivendicazione russa della guerra come atto di riparazione di un torto storico subito dalla Russia “per colpa dei comunisti” e di riconquista dell’unità del popolo russo. Da qui la rivendicazione testuale della cosiddetta decomunistizzazione dell’Ucraina, cioè del suo ritorno in tutto o in parte nell’orbita russa. Da qui anche la rievocazione da parte di Putin della figura storica di Stolypin, primo ministro grande-russo e arcireazionario dello zar Nicola II, e la citazione delle sue parole in occasione dell’Assemblea federale dopo un anno di guerra: “Quando si tratta di difendere la Russia noi dobbiamo tutti unire… per affermare il solo supremo diritto storico della Russia: il diritto di essere forte”. Un diritto che Stolypin invocò proprio per cancellare ogni distinzione fra Russia, Bielorussia e Ucraina.
Il paradosso è che lo stesso Woods, nell’articolo del febbraio 2023, insieme a mille contorsioni sulla guerra per procura, era costretto a riconoscere che
Putin potrebbe rivendicare la vittoria se la Russia riuscisse a prendere il controllo di tutto il Donbass e del collegamento via terra alla Crimea. Ma sicuramente vorrebbe di più, ad esempio, prendere Odessa e la costa del Mar Nero. Ciò strangolerebbe economicamente l’Ucraina e la ridurrebbe in uno stato di vassallaggio. Sarebbe un duro colpo per la NATO e metterebbe alla luce i limiti del potere statunitense. Naturalmente, gli americani faranno tutto ciò che è in loro potere per impedirlo. Ma è tutt’altro che certo che possano avere successo.
Al netto delle previsioni (e di toni paracampisti), è un’analisi esatta degli obiettivi russi. Ma se anche dopo la mancata conquista di Kiev, la guerra russa mantiene l’obiettivo di ridurre l’Ucraina al “vassallaggio”, obiettivo per di più ritenuto realistico da Woods, non è questo forse la misura della natura imperialista dell’occupazione russa? Storicamente l’Ucraina è stata a lungo vassalla della Russia, prima sotto lo zarismo, poi su basi diverse sotto lo stalinismo. La propaganda sciovinista grande-russa ha sempre chiamato l’Ucraina “piccola Russia” e gli ucraini “piccoli russi”. Se l’imperialismo russo torna sui passi della propria storia mirando al vassallaggio dell’Ucraina non è questa una ragione sufficiente per difendere l’Ucraina dall’aggressione russa?
Cosa dice Trotsky e cosa dice la TMI
Di fronte alle vistose contraddizioni della sua posizione, soprattutto da un punto di vista trotskista, la TMI ha sentito il bisogno di difenderla sul piano storico e teorico. Armi all’Ucraina? A coloro che fanno cattivo uso delle parole di Trotskij, diciamo: “Imparate a pensare!” è il titolo di un articolo di Joe Attard, dirigente della TMI (novembre 2022).
L’operazione retorica è semplice. Per difendere il proprio rifiuto di sostenere l’Ucraina contro la guerra d’invasione russa, l’articolo prende di mira la posizione sbagliata di quelle organizzazioni e tendenze del movimento trotskista che hanno rivendicato l’invio delle armi NATO all’Ucraina. Ma la critica di un errore altrui da parte della TMI non riesce a nascondere l’errore proprio.
L’articolo di Attard è costretto a citare le posizioni di Trotsky in polemica con gli ultrasinistri e le loro posizioni indistintamente e pregiudizialmente disfattiste. Cita la posizione di Trotsky a favore del non boicottaggio di un eventuale invio di armi dell’Italia fascista a favore della ribellione algerina contro l’imperialismo francese; cita la posizione di Trotsky favorevole a non boicottare l’invio di armi da parte del governo francese a un eventuale governo proletario in Belgio nel corso della guerra imperialista; ricorda che in entrambi i casi Trotsky polemizzò a ragione con le posizioni ultrasinistre. Ma conclude:
Qui c’è una differenza importante. Quello che sta accadendo in Ucraina non è una rivolta rivoluzionaria di una colonia oppressa o un caso di autodifesa di un regime proletario. L’Ucraina è guidata da un governo borghese reazionario.
La retorica non è fortunata. È indubbio che l’Ucraina è guidata da un governo reazionario, e non da… un regime proletario. Come è indubbio che non siamo in presenza di una rivoluzione coloniale di tipo algerino. Ma la domanda è: la presenza di un governo (o leadership) reazionario alla testa di una nazione invasa e occupata da una potenza imperialista richiede che i rivoluzionari rifiutino di sostenere la sua resistenza all’imperialismo che l’invade? Posta la domanda in forma corretta, la risposta è semplice: niente affatto. Al contrario.
Trotsky difese incondizionatamente l’Etiopia del negus dalla guerra di invasione dell’imperialismo fascista nonostante fosse diretta da un negus feudale, così come difese la Cina dalla guerra d’invasione dell’imperialismo giapponese nonostante la sua resistenza fosse guidata dal Kuomintang di Chiang Kai-shek, sanguinario repressore degli operai e dei comunisti cinesi. Non c’erano in quei casi né regimi proletari né rivoluzioni coloniali. Ma due paesi non imperialisti invasi da un paese imperialista. Non si può essere neutrali o disfattisti bilaterali in una simile guerra.
Così nella più recente tradizione del trotskismo. Sostenemmo la resistenza dell’Iraq alla guerra d’invasione degli imperialismi d’occidente nonostante la dittatura sanguinaria di Saddam Hussein. Difendemmo la resistenza della Serbia alla guerra degli imperialismi NATO nonostante il regime reazionario di Milosevic. Difendemmo il diritto di resistenza dell’Afghanistan contro la guerra d’invasione occidentale nonostante fosse diretta dagli arcireazionari talebani. Difendiamo incondizionatamente il popolo di Palestina e la sua resistenza all’occupazione sionista nonostante la direzione fondamentalista di Hamas e il suo regime reazionario a Gaza. Forse Saddam Hussein, Milosevic, i talebani, Hamas sono… a sinistra di Zelensky? In ognuno di questi casi i rivoluzionari difendono la nazione e il popolo aggrediti dall’imperialismo, senza condividere alcuna responsabilità politica per i loro governi. La difendono dalla propria angolazione autonoma, classista, internazionalista, rivoluzionaria. Questa è la posizione elementare del trotskismo.
Attard è costretto a concedere che in effetti “la natura reazionaria del governo non è di per sé sufficiente a impedire il sostegno all’Ucraina contro la Russia”. L’esempio del sostegno di Trotsky all’Etiopia del negus è troppo evidente per essere ignorato. Ma l’autore si difende in corner con l’argomento delle diverse conseguenze politiche delle due guerre. Una vittoria del negus avrebbe significato una vittoria contro l’imperialismo nel suo complesso, mentre una vittoria dell’Ucraina significherebbe “il rafforzamento dell’imperialismo statunitense, la forza più reazionaria del pianeta”. Disgraziatamente per Attard, c’è un problema. L’Etiopia del negus, come la Cina di Chiang Kai-shek, furono appoggiate anche militarmente, nel suo proprio interesse, dall’imperialismo britannico, la forza imperialista dominante sul pianeta all’epoca, come oggi gli USA. Ma ciò non ha impedito a Trotsky di sostenerle contro l’invasione, rispettivamente, dell’imperialismo italiano e giapponese. Perché la sconfitta di una aggressione imperialista ha sempre una valenza storica positiva, indipendentemente dai benefici immediati di questa o quella potenza concorrente, fosse pure la più potente al mondo.
Nel caso specifico, peraltro, le cose stanno per molti aspetti in termini opposti a come le presenta Attard. Una sconfitta dell’invasione russa da un lato precipiterebbe la crisi del regime putiniano, aiuterebbe lo sviluppo del movimento di massa in Russia, incoraggerebbe la rivolta delle nazionalità oppresse dall’imperialismo russo: in altri termini, potrebbe aprire una crisi di portata rivoluzionaria in quell’immenso paese, come nel 1905 o nel 1917, con ricadute potenzialmente enormi per il proletariato mondiale. Dall’altro lato, la classe operaia ucraina sarebbe incoraggiata a presentare il conto alle proprie classi dominanti per i sacrifici fatti per la difesa del paese, e non accetterebbe passivamente la cura da cavallo richiesta per l’ingresso dell’Ucraina nella UE. I costi della vittoria per il governo ucraino e per la stessa UE sarebbero insomma tutt’altro che indolori. Nella storia, la vittoria di un paese oppresso contro una occupazione militare spesso dischiude un potenziale liberatorio.
“Assolutamente impossibile” un futuro conflitto mondiale?
Il rifiuto di difendere l’Ucraina a favore del disfattismo bilaterale su entrambi i lati si giustificherebbe da un punto di vista trotskista nel caso di una trascrescenza della guerra attuale in uno scontro diretto tra l’imperialismo russo e gli imperialismi NATO. Non è lo scenario attuale. È uno scenario che tutte le potenze imperialiste in gioco vogliono scongiurare. È uno scenario altamente improbabile perché, data la rilevanza delle potenze in gioco, si configurerebbe come conflitto mondiale. Un conflitto dagli effetti incontrollabili nell’era nucleare.
Tuttavia, nella prospettiva storica, uno scontro fra le potenze imperialiste vecchie e nuove per la spartizione del mondo è tragicamente possibile. Trotsky giustamente irrideva quei pacifisti o liberalprogressisti che teorizzavano l’impossibilità di una seconda guerra imperialista per via della potenza distruttiva dei nuovi armamenti. Questo vale anche per il futuro. La rotta di collisione tra imperialismo USA e imperialismo cinese è in atto. È in prospettiva la linea di faglia di una nuova possibile guerra. La stessa guerra d’invasione dell’imperialismo russo in Ucraina si pone indirettamente su questa linea di faglia: Putin pensava di utilizzare la distrazione USA sul Pacifico per allargare per via militare la propria area d’influenza in Europa. Un calcolo rivelatosi per molti aspetti fallimentare, ma non privo di fondamento.
Il paradosso è che la TMI esclude in assoluto la possibilità di una nuova guerra mondiale:
Non esiste assolutamente la possibilità di una nuova guerra mondiale tra gli Stati Uniti e la Russia, né tra gli Stati Uniti e la Cina, in parte, proprio a causa della minaccia di una guerra nucleare, ma anche per la opposizione risoluta a una tale guerra da parte delle masse.” (La guerra in Ucraina: una posizione internazionalista di classe—La dichiarazione della TMI, 28 febbraio 2022)
È una valutazione replicata in decine di documenti e articoli della TMI. Qui la posizione della TMI sulla guerra si salda con la sua rappresentazione enfatica della radicalizzazione di massa e della rivoluzione imminente. In definitiva, la tesi è che la guerra sarebbe impossibile per via della minaccia rivoluzionaria. Un argomento smentito dall’esperienza storica delle due guerre mondiali. E privo purtroppo di un fondamento storico per il futuro. Una posizione irresponsabile.
La posizione dei trotskisti è opposta: la prospettiva rivoluzionaria internazionale è necessaria anche per scongiurare il rischio in prospettiva di una nuova grande guerra. Anche per questo è necessario battersi contro ogni imperialismo e contro ogni sua guerra, a difesa di tutte le nazioni oppresse e del proletariato mondiale. La difesa rivoluzionaria dell’Ucraina contro la guerra d’invasione dell’imperialismo russo è parte di questa prospettiva generale.
Partito Comunista dei Lavoratori
Febbraio 2024
Una “vecchia” polemica sul “governo operaio”
Le posizioni di FalceMartello (mozione 5) sulla questione centrale nel dibattito del Partito
La pretesa “tendenza marxista” contro Rosa Luxemburg, Lenin e Trotsky
Una risposta alle argomentazioni teoriche di FM sul “governo operaio”
Il seguente testo fu scritto nel dicembre 2004 da Franco Grisolia, dirigente della Associazione Marxista Rivoluzionaria – Progetto Comunista, organizzazione da cui nel 2006 sarebbe nato il Partito Comunista dei Lavoratori, dopo la scissione dal PRC a seguito dell’ingresso di quest’ultimo nel secondo governo Prodi. FalceMartello, antesignana di Sinistra Classe Rivoluzione, nel quadro del dibattito in vista del VI Congresso del PRC, esprimeva una differenza importante sul concetto del “governo operaio” (o dei lavoratori), ed in particolare sulla sua propaganda diretta alle organizzazioni del movimento operaio, arrivando a bollare come estremiste e superate dall’Internazionale Comunista le posizioni di Rosa Luxemburg sulla necessità della distruzione dello Stato borghese come premessa di un vero governo operaio rivoluzionario. Criticava come “stupidaggini” delle “sette pseudorivoluzionarie a tutte le latitudini” la propaganda che avanzavamo come AMR per la rottura delle organizzazioni operaie con la borghesia su un programma di potere. In questo senso rinnegava le concezioni del Programma di Transizione, che ripetevano l’approccio dei bolscevichi nella rivoluzione del 1917. La cosa giunse al punto di portare il principale dirigente di FalceMartello, Claudio Bellotti, a pubblicare in una polemica con la nostra frazione il testo del Quarto Congresso dell’Internazionale Comunista, totalmente tagliato frase per frase, per eliminarne i concetti più “radicali”, fino al punto di cambiare una frase per “modernizzarne” il significato. Il seguente testo rappresenta la risposta a FM, la pretesa “tendenza marxista”, in difesa della concezione marxista rivoluzionaria del “governo operaio”, rivendicata allora come oggi dal PCL.
Lo sviluppo del dibattito preparatorio per il VI Congresso del Partito della Rifondazione Comunista, con la presentazione di 5 mozioni congressuali, ha avuto se non altro il pregio di far sì che ciascuna delle diverse “aree” del partito fosse obbligata a mettere più in chiaro le proprie posizioni, a mostrare il proprio “passaporto politico”. Questo è avvenuto in particolare sulla questione delle questioni che è al centro di questo congresso. Quella del governo. E, alla luce di ciò che è scritto, si può vedere che al di là della ampia differenza di posizioni, la linea discriminante fondamentale tra marxismo rivoluzionario e opportunismo di vario tipo vede da un lato la mozione di Progetto Comunista e dall’altro le altre quattro. Ciò vale anche per la più a sinistra di queste, cioè quella presentata dai compagni di FalceMartello, che ha espresso con chiarezza posizioni così opportuniste e contrarie alle basi del leninismo-trotskismo da lasciare un po’ sorpresi persino noi, che pure non abbiamo mai sottovalutato l’enorme distanza tra il trotskismo conseguente e lo pseudomarxismo centrista di FM. Sintomo tutto ciò, ci pare, di un evidente spostamento a destra che sta colpendo l’organizzazione nazionale e internazionale di FM.
È nella polemica contro le nostre posizioni sul polo autonomo di classe e sulle conseguenti posizioni sul governo che l’opportunismo revisionista dei dirigenti di FM si è manifestato nella maniera più chiara. Il punto di partenza è stato la rivendicazione da parte nostra della tradizionale posizione dell’ala conseguentemente marxista del movimento operaio espressa magnificamente oltre cento anni fa, contro i governisti della sua epoca, da Rosa Luxemburg nella sua frase:
Nella società borghese il ruolo spettante alla socialdemocrazia è per sua essenza quello di opposizione. Come partito di governo può farsi avanti solamente sulle rovine dello stato borghese. (Rosa Luxemburg, Una questione di tattica, 6 luglio 1899)
I dirigenti di FalceMartello, esprimendo con ciò la loro distanza dalle basi fondamentali del marxismo rivoluzionario, hanno cercato di mettere in questione questa posizione, argomentando assurdamente a partire dalla tattica leninista del “governo operaio”. Ciò è avvenuto in diverse occasioni e per quanto ci consta in ogni nostra presentazione in cui erano presenti e sono intervenuti compagni di FM, il che segnala che è stato scelto come argomento di “linea” contro il nostro documento. La sintesi più chiara di questa posizione è ormai espressa dall’articolo del compagno Bellotti pubblicato sul n°180 di FM e intitolato Sinistra PRC. Le ragioni di una divisione (e reperibile anche sul sito di FalceMartello). In tale articolo—che vuole essere una replica alla risposta del compagno Francesco Ricci a un precedente articolo di Bellotti in polemica con noi—con abbondanza di sarcasmo pesante (che è sempre o quasi sempre sintomo di difficoltà di argomentazione critica positiva) il compagno Bellotti cerca di dimostrare l’indimostrabile e cioè che dopo l’esperienza della Rivoluzione russa che confermava pienamente nei fatti la posizione di Rosa Luxemburg (che era quella dell’insieme della sinistra rivoluzionaria della Seconda Internazionale), la Terza Internazionale di Lenin elaborò, stante lo sviluppo di una situazione rivoluzionaria, una posizione diversa in relazione al concetto di “governo operaio” elaborato in particolare nel IV congresso dell’Internazionale Comunista (1922).
Per cercare di sostenere sulla base dei testi questa assurdità il compagno Bellotti compie una vecchia operazione scorretta. Tronca i testi artificialmente (cioè, non per legittime ragioni di spazio e di sintesi), falsificando il loro vero significato. Ci sembra quindi necessario ristabilire la verità, segnalando i punti fondamentali delle tesi dell’Internazionale Comunista sul governo operaio che Bellotti omette:
Il più elementare programma di un governo operaio deve consistere nell’armamento del proletariato, nel disarmo delle organizzazioni borghesi controrivoluzionarie, nell’instaurazione del controllo sulla produzione, nel far cadere sui ricchi il peso determinante delle tasse e nel fiaccare la resistenza della borghesia controrivoluzionaria.
Il testo continua poi con un paragrafo citato dal compagno Bellotti, ma con un significativo zig-zag tra quello che cita e quello che omette:
Tale governo operaio è possibile solo se esso sorge dalla lotta delle masse [citato], se si fonda su organismi operai atti alla lotta e creati dai settori più ampi delle masse in lotta [tagliato]. Tuttavia, persino un governo operaio che sorga attraverso un riallineamento parlamentare, cioè un governo di origini parlamentare, può aprire la strada ad una sollevazione del movimento operaio rivoluzionario [citato anche se in una versione, questa, diversa da tutte le versioni che abbiamo potuto consultare, compresa quella pubblicata dai trotskisti francesi nel 1934, che concludono tutte la frase con la formula “può fornire l’occasione per rianimare il movimento operaio rivoluzionario”]. Ma va da sé che la nascita di un vero governo operaio e il mantenimento di un governo che faccia una politica rivoluzionaria condurranno necessariamente alla lotta più accanita e, eventualmente, alla guerra civile contro la borghesia [tagliato].
Quale poi l’atteggiamento dei comunisti? Ecco cosa afferma il testo:
In alcune circostanze i comunisti devono dichiararsi disposti a formare un governo con partiti e organizzazioni operaie non comuniste. Ma non possono farlo che di fronte a precise garanzie che questi governi operai condurranno una vera lotta contro la borghesia nel senso sopra indicato […]. Malgrado i grandi vantaggi la parola d’ordine del governo operaio ha anche dei pericoli, come tutte le tattiche di fronte unico: per parare questi pericoli non devono perdere di vista il fatto che, se ogni governo borghese è allo stesso tempo capitalistico, non è altrettanto vero che ogni governo operaio debba essere un governo proletario, cioè uno strumento rivoluzionario del proletariato. L’Internazionale Comunista deve prevedere le seguenti possibili varianti: 1) un governo operaio liberale […]; 2) un governo operaio socialdemocratico […]; 3) un governo dei contadini e degli operai; 4) un governo operaio con la partecipazione dei comunisti; 5) un vero governo proletario che nella sua forma più pura non può essere impersonificato che dal partito comunista. I due primi tipi di governi operaio non sono governi operai rivoluzionari ma governi, camuffati, di coalizione tra la borghesia e i leader operai controrivoluzionari […]. I comunisti non dovranno partecipare a governi del genere. Al contrario, dovranno smascherare implacabilmente di fronte alle masse il vero carattere di questi falsi “governi operai” […] I comunisti dovranno a tutti i costi spiegare alla classe operaia che la sua liberazione non potrà essere assicurata che dalla dittatura del proletariato. Gli altri due tipi di governo operaio ai quali possono partecipare i comunisti non sono ancora la dittatura del proletariato, non costituiscono ancora una necessaria forma di transizione verso la dittatura, ma possono costituire un punto di partenza per la conquista di tale dittatura. La dittatura completa del proletariato non può essere realizzata che da un governo operaio composto da comunisti.
Alla luce del testo nella sua compiutezza (testo non a caso da noi pubblicato nel n°8 di Progetto Comunista del settembre 2004) non è possibile—per chiunque non voglia essere politicamente totalmente cieco e sordo—non vedere che non c’è alcuna contraddizione tra la politica dell’Internazionale Comunista e quella prospettata da Rosa Luxemburg. L’appoggio o l’alleanza che l’Internazionale Comunista prospetta è rispetto a un vero governo operaio, cioè uno strumento rivoluzionario del proletariato basato perlomeno su un programma quale quello suindicato, un possibile passo verso la dittatura del proletariato e quindi un sintomo e un attore della distruzione (“le rovine”) dello Stato borghese.
Che cosa ha a che vedere con un qualsivoglia vero governo operaio il governo Zapatero, che lungi certo dall’instaurare il controllo operaio sulla produzione (per non parlare dell’armamento del proletariato) privatizza a tutto spiano a cominciare dai cantieri navali del Nord della Spagna, con conseguente violenta rivolta operaia contro il governo? E il compagno Bellotti, nel suo articolo, ha il coraggio politico di chiedere, con il solito sarcasmo di scarsa serietà, che cosa avrebbero dovuto dire i marxisti di fronte a questo esempio tra i più degenerati di governo socialdemocratico. Avremmo cercato e cercheremmo di “smascherarlo implacabilmente di fronte alla masse” come ci indica il testo dell’Internazionale Comunista, cioè esattamente il contrario di quanto ci propone da revisionista conseguente il compagno Bellotti e da quanto stanno facendo nei fatti i partners spagnoli di FalceMartello.
La polemica sul governo operaio con l’indicato stravolgimento delle posizioni leniniste si inserisce come tentativo di argomentazione teorica rispetto alla polemica frontale sulla nostra proposta programmatica di “polo autonomo di classe anticapitalistico”.
Scrive Bellotti:
Ma un polo anticapitalistico è cosa ben diversa: significa pensare che si può fare sottoscrivere a Mussi o a Epifani un programma anticapitalistico e di classe. Ah, ma questa è una tattica per smascherare questi burocrati di fronte ai lavoratori! ci spiegheranno allora i nostri compagni di Progetto. Insomma, l’applicazione pratica della vostra tattica è la seguente. Il PRC deve dire “Epifani, Mussi, dovete essere anticapitalisti!” Al loro prevedibile rifiuto (ammesso che rispondano), andremo dagli iscritti dei DS e della CGIL a dire: “Visto? I vostri dirigenti sono opportunisti e non vogliono una vera alternativa, venite con noi nel “polo autonomo di classe”. Peccato che queste stupidaggini siano state ripetute da oltre un secolo da tutte le sette pseudorivoluzionarie a tutte le latitudini e non abbiano scalfito di un millimetro l’egemonia dei riformisti sul movimento operaio.
Nuovamente le cose sono presentate a barzelletta (ciò che non è offensivo tanto verso di noi quanto verso i lettori, e quindi in primo luogo i sostenitori di FM, trattati come incapaci di intendere un confronto teorico serio) e senza dialettizzazione. Tuttavia, sfrondato da ciò, confessiamo la nostra solidarietà con gli accusati “settari” di oltre un secolo di movimento operaio.
Perché, chi sono dunque questi nostri progenitori? Sono, oltre Rosa Luxemburg, Lenin, Trotsky i bolscevichi e i trotskisti della IV Internazionale originaria. Vediamo infatti come Trotsky affronta la questione nel capitolo Il governo operaio e contadino del fondamentale Programma di Transizione su cui nel 1938 fu fondata la IV Internazionale:
Tra l’Aprile e il Settembre del 1917 i bolscevichi esigevano che i socialrivoluzionari e i menscevichi rompessero i loro legami con la borghesia liberale e prendessero direttamente il potere […]. La parola d’ordine dei bolscevichi, rivolta ai menscevichi e ai socialisti rivoluzionari: Rompete con la borghesia, prendete voi stessi il potere!, aveva per le masse un enorme valore educativo. Il rifiuto ostinato dei menscevichi e dei socialrivoluzionari di prendere il potere […] li ha compromessi definitivamente agli occhi del popolo preparando la vittoria dei bolscevichi […]. L’accusa fondamentale che la IV Internazionale rivolge alle organizzazioni tradizionali del proletariato è di non voler staccarsi dal semi-cadavere della borghesia. In queste condizioni la rivendicazione rivolta sistematicamente alla vecchia direzione: Rompete con la borghesia, prendete il potere! è uno strumento estremamente importante per smascherare il tradimento dei partiti e delle organizzazioni della II e della III Internazionale, come pure dell’Internazionale di Amsterdam […]. Da tutti i partiti e le organizzazioni che si basano sugli operai e sui contadini e che parlano in loro nome esigiamo che rompano politicamente con la borghesia e imbocchino la strada della lotta per il potere degli operai e dei contadini. Su questa strada promettiamo loro un completo appoggio contro la reazione capitalista. Allo stesso tempo, sviluppiamo una agitazione instancabile attorno a rivendicazioni transitorie che dovrebbero, secondo noi, costituire il programma del governo operaio e contadino. È possibile la costituzione di un tale governo da parte delle organizzazioni operaie tradizionali? L’esperienza precedente ci dimostra […] che ciò è per lo meno poco verosimile […]. Ma è inutile perdersi in congetture. L’agitazione attorno alla parola d’ordine del governo operaio e contadino conserva in tutte le situazioni un enorme valore educativo.
Più chiaro di così. Quelle che Bellotti chiama le “stupidaggini” delle “sette pseudorivoluzionarie a tutte le latitudini” e che non avrebbero “scalfito di un millimetro l’egemonia dei riformisti” è semplicemente il metodo con cui si è realizzata l’egemonia dei bolscevichi nella Rivoluzione russa.
Alla luce di tutto ciò il senso delle vecchie divergenze sulla natura della maggioranza dei DS e, più importante, quella che ha portato FalceMartello a presentare al quinto congresso del partito un emendamento centrale alle nostre tesi, che proponeva di cassare il riferimento alla concezione leninista (in realtà già di Engels a proposito dei prodromi del futuro laburismo inglese) dei partiti riformisti come partiti “operaio-borghesi”, si chiarisce pienamente. La realtà è che la teoria e il metodo politico di FM sono assolutamente opposti ai “settari di oltre un secolo di storia del movimento operaio”, cioè alla sinistra marxista della II Internazionale con Rosa Luxemburg (e Lenin e Trotsky), ai bolscevichi e all’Internazionale Comunista delle origini con Lenin (e Trotsky), e alla IV Internazionale delle origini con Trotsky.
Sulla questione centrale del governo FM avrebbe salutato e appoggiato (“criticamente” naturalmente) quel governo socialista omogeneo, nato da una rivoluzione in sviluppo, che includeva pariteticamente i due grandi partiti, quello riformista e quello centrista, della classe; cioè, quel governo Scheidemann nella Germania del 1918–1919, i cui dirigenti socialdemocratici fecero pagare alla “settaria” Luxemburg la sua intransigente opposizione facendole spaccare la testa dai loro scherani reazionari.
Ecco la realtà politica di FM, quello di una setta antileninista e antitrotskista (e quindi antimarxista) che si basa su posizioni centriste sempre più di destra e semiriformiste, e il cui settarismo autocentrato è esattamente la copertura di una natura opportunista.
Se oggi il centro del congresso del PRC è la battaglia contro la scelta di aperta collaborazione di classe della maggioranza bertinottiana, la denuncia dell’opportunismo dei critici di sinistra, riformisti o semiriformisti, tutti in un modo o nell’altro governisti, è parte centrale della battaglia per la costruzione di una alternativa marxista rivoluzionaria, nel PRC e nel movimento operaio in generale.
Naturalmente sappiamo bene che la stragrande maggioranza dei sostenitori/trici di FM agisce in questo partito con la volontà di opporre al riformismo non un opportunismo lontano e opposto al marxismo rivoluzionario, ma una vera alternativa rivoluzionaria. Ma all’evidenza ciò non è possibile a partire dalle posizioni di FM.
È tempo, quindi, che chiunque vuole realmente lottare per costruire una alternativa marxista e rivoluzionaria nel PRC rompa con l’opportunismo antileninista e antitrotskista di FM e si unisca alla battaglia di Progetto Comunista in un’azione comune ed unitaria, perché basata, al di là di possibili divergenze di analisi e di tattica secondarie, su un preciso, chiaro e coerente programma rivoluzionario.